Letteratura scientifica Oncologia

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Oncologia

Una delle nuove sfide per il futuro in oncologia è quella di riuscire ad integrare l’innovazione tecnologica e la ricerca traslazionale, allo scopo di chiarire aspetti ancora misconosciuti della biologia e della genetica delle neoplasie che consentano un trattamento personalizzato sulla base delle caratteristiche molecolari del paziente e della sua malattia.
Il concetto di “oncologia di precisione” prevede che specifiche alterazioni di una sequenza genica (o parte di essa), RNA o proteina che presentino alterazioni molecolari, in un paziente con neoplasia, diventino il target di un trattamento individualizzato. Il razionale della “precisa” selezione del paziente sulla base delle caratteristiche molecolari della neoplasia di cui è affetto, è il potenziale beneficio clinico maggiore e per un tempo più lungo, rispetto al trattamento con la classica chemioterapia citotossica.
Si passa, così, dal classico approccio “one size fits all”, che prevedeva la categorizzazione della neoplasia sulla base dell’organo da cui prende origine e del tipo istologico, ad una classificazione basata sul profilo molecolare. La caratterizzazione delle alterazioni genetiche dei tumori, e la comprensione della complessa interazione tra le molecole dello stesso network rappresenta, pertanto, il fondamento su cui si basa l’ oncologia di precisione.
Dopo il completamento della mappatura del genoma umano nell’ambito dello Human Genome Project avvenuto nel 2001, si sono sviluppate rapidamente non solo la genetica molecolare, ma anche la genomica e la proteomica, con la possibilità di studiare oltre alle alterazioni genetiche ed epigenetiche, anche le variazioni proteiche legate all’espressione genica e le vie di trasduzione del segnale che sottendono alla complessità dei processi cellulari.
I progressi nel campo della genomica sono stati resi possibili dal recente sviluppo di nuove tecnologie, quali la next generation sequencing (NGS), che consentono di effettuare il sequenziamento di più ampie porzioni geniche rispetto alle precedenti tecnologie, con tempi ridotti ed un aumento della sensibilità analitica, con lo scopo di identificare le mutazioni “druggable”, cioè corrispondenti a specifici bersagli molecolari su cui scegliere i farmaci targeted.
Familiarità ed ereditarietà: anche se la maggior parte di carcinomi mammari sono forme sporadiche, il 5%-7% risulta essere legato a fattori ereditari, 1/4 dei quali determinati dalla mutazione di due geni: BRCA-1 posto sul cromosoma 17 (1) e BRCA-2 (2) posto sul cromosoma 13. Le mutazioni a carico di questi geni conferiscono un aumentato rischio di sviluppare un tumore della mammella e/o un tumore dell’ovaio: nelle donne portatrici di mutazioni del gene BRCA-1 il rischio di ammalarsi nel corso della vita di carcinoma mammario è pari al 65% e nelle donne con mutazioni del gene BRCA-2 pari al 40% (3). Mutazioni genetiche a carico del gene BRCA2, inoltre, conferiscono un aumentato rischio di tumore della mammella maschile. Altri geni ritenuti responsabili di un incremento di rischio di sviluppare tumori della mammella pari a 1.5-7.5 volte in più rispetto alla popolazione generale sono: BRIP1, MSH6, BARD1, RAD51D e
mutazioni del gene ATM (Ataxia Telangiectasia Mutated ) (4) o del gene CHEK2 (5,6);
mutazione del gene PALB2 (7);
sindrome di Li-Fraumeni (mutazione di p53);
sindrome di Cowden (mutazione del gene PTEN);
sindrome di Peutz-Jeghers (STK11).

 

Consulenza genetica – Le pazienti sopravviventi al tumore mammario che non abbiano già eseguito i test genetici, debbono essere candidate ai test, qualora ne occorressero i criteri di eleggibilità. In particolare i test per BRCA dovrebbero essere sempre considerati per gli uomini e per le donne con diagnosi di malattia in età inferiore a 40 anni o con una storia familiare di cancro al seno o alle ovaie. Prima di eseguire il test, è importante che le pazienti vengano informate sulle potenziali implicazioni (mediche e psico-sociali) correlate all’esito dei test per loro stesse e le loro famiglie. La possibilità di identificare portatori di mutazioni predisponenti o individui appartenenti a famiglie con multipli casi di neoplasia, ha avuto importanti ripercussioni sul piano clinico assistenziale e ha posto le basi per lo sviluppo della Consulenza Genetica Oncologica.
In accordo con le attuali linee guida statunitensi (www.nccn.org) (8) ed inglesi (www.nice.org.uk/guidelines) (9), i test genetici devono essere esclusivamente offerti dopo un’adeguata consulenza oncogenetica durante la quale gli individui o i membri di una famiglia possano comprendere pienamente il significato di ciò che viene loro proposto, le determinanti ereditarie, le opzioni di gestione clinica e possano scegliere autonomamente il percorso più appropriato.
Il processo di consulenza deve favorire e promuovere una scelta informata autonoma e consapevole rispetto sia al test genetico (quando indicato) sia alle scelte di sorveglianza e/o prevenzione (sorveglianza intensificata, farmacoprevenzione, chirurgia profilattica).
Durante lo svolgimento di tale percorso si possono definire quattro livelli di rischio oncologico per il tumore della mammella e/o ovaio:
Basso o assimilabile a quello della popolazione generale;
Moderatamente aumentato rispetto a quello della popolazione generale;
Alto senza mutazione genetica accertata;
Alto con mutazione genetica accertata.
Criteri per l’invio alla consulenza genetica oncologica
Si ritiene opportuno inviare alla consulenza genetica oncologica la donna che presenti almeno uno dei seguenti criteri (10):
Storia personale o familiare di:
Mutazione nota in un gene predisponente (BRCA1, BRCA2, P53, PTEN, ecc.);
Maschio con carcinoma mammario;
Donna con carcinoma mammario e carcinoma ovarico;
Donna con carcinoma mammario < 36 anni;
Donna con carcinoma mammario triplo negativo < 60 anni;
Donna con carcinoma ovarico sieroso di alto grado a qualsiasi età;
Donna con carcinoma mammario bilaterale < 50 anni;
Donna con carcinoma mammario < 50 anni e almeno 1 parente di primo grado con:
Carcinoma mammario < 50 anni;
Carcinoma ovarico non mucinoso o borderline a qualsiasi età.
Carcinoma mammario bilaterale;
Carcinoma mammario maschile;
Donna con carcinoma mammario > 50 anni e storia familiare di carcinoma mammario o ovarico in 2 o più parenti in primo grado* tra loro (di cui uno in primo grado con lei*).
Donna con carcinoma ovarico e almeno un parente di primo grado* con:
Carcinoma mammario < 50 anni;
Carcinoma ovarico a qualsiasi età;
Carcinoma mammario bilaterale;
Carcinoma mammario maschile.
*Presenza di un familiare di primo grado (genitore, fratello/sorella, figlio/a) con le caratteristiche di malattia specificate. Per il lato paterno della famiglia, considerare anche familiari di secondo grado (nonna, zie).
Il test genetico deve essere effettuato prima di tutto su di un componente della famiglia che abbia già sviluppato la malattia (caso indice). Dal test genetico è possibile ottenere:
-Un risultato informativo (la mutazione predisponente è stata identificata),
oppure
-Un risultato non informativo (la mutazione predisponente non è stata identificata ma non si può escluderne la presenza; è stata identificata una mutazione di significato incerto cui non è possibile attribuire un valore di rischio).
Per la classificazione delle mutazioni si utilizza la suddivisione in 5 classi proposta dal gruppo ENIGMA(11):
Classe 1: non patogenetica
Classe 2: probabilmente non patogenetica
Classe 3: di significato incerto
Classe 4: probabilmente patogenetica
Classe 5: patogenetica

 

Il test genetico è perciò realmente negativo, solamente quando una mutazione precedentemente identificata in un individuo della famiglia, non viene identificata nel soggetto in analisi. Solo se il risultato è informativo, il test genetico può essere esteso agli altri membri della famiglia che desiderino effettuarlo, a partire dai 18 anni di età. Non è indicata l’esecuzione del test nei minorenni, poiché l’aumento del rischio di tumori inizia con l’età adulta. In caso di mutazioni di significato incerto non si deve proporre l’estensione del test ai familiari del caso indice, se non nell’ambito di progetti di ricerca e la proposta di sorveglianza deve essere basata sulla storia familiare o su altri fattori di rischio accertati.
Quando il risultato del test è informativo possiamo gestire l’aumentato rischio di sviluppare neoplasie mammarie od ovariche nelle portatrici di mutazione BRCA1/2 siano esse sane o affette, attraverso tre diversi approcci che vanno dalla sorveglianza intensiva agli studi di farmacoprevenzione fino alla chirurgia profilattica.
Classificazione dei carcinomi invasivi sulla base delle indagini di biologia molecolare
Il carcinoma della mammella è una malattia eterogenea e pazienti con tumori apparentemente simili per caratteristiche clinico-patologiche possono presentare un decorso clinico diverso. In seguito alle indagini di biologia molecolare (espressione genica) sono stati individuati quattro sottotipi di carcinomi invasivi (12):
“Luminali A”: neoplasie con espressione dei recettori ormonali, a prognosi favorevole;
“Luminali B”: neoplasie che, pur esprimendo i recettori ormonali, hanno un rischio di recidiva elevato, a causa dell’elevato indice proliferativo correlato ad alta espressione dei geni di proliferazione;
“HER2”: presenza di espressione di HER2;
“Basal like”: neoplasie caratterizzate dall’assenza di espressione dei recettori ormonali e di HER2 e da una aumentata espressione delle citocheratine(mioepiteliali) basali (ad esempio CK5/6 e CK14).
Nella pratica clinica, la valutazione immunoistochimica dello stato dei recettori ormonali, del Ki67 e di HER2, permette di identificare in maniera surrogata i 4 sottogruppi fenotipici di carcinoma mammario che presentano una “relativa” corrispondenza con i 4 derivati dai profili di espressione genica (13). I gruppi immunofenotipici di rilevanza clinica e con implicazioni terapeutiche importanti, anche a livello di terapia adiuvante, sono:
Luminali A: recettori ormonali positivi, HER2 negativo e bassa attività proliferativa (di cui fanno parte frequentemente alcuni istotipi speciali quali carcinoma tubulare, carcinoma lobulare tipo classico). Secondo la Consensus di San Gallen 2013 (14) i tumori mammari Luminali A sono rappresentati dai tumori con recettori estrogenici positivi, con recettori progestinici positivi con valore di positività superiore al 20%, con HER2 negativo e basso Ki67 (cut off 20% e non più 14% come riportato nella Consensus 2009);
Luminali B/HER2 negativi: recettori ormonali positivi, HER2 negativo ed alta attività proliferativa;
Luminali B/HER2 positivi: recettori ormonali positivi, HER2 sovraespresso (score 3+ delle reazioni di immunoistochimica) o amplificato, qualsiasi valore di attività proliferativa;
HER2 positivi (non luminali): HER2 sovraespresso (score 3+ delle reazioni di immunoistochimica) o amplificato (FISH o altre metodiche) ed entrambi i recettori ormonali negativi;
Triplo-negativi: assenza di espressione dei recettori ormonali e negatività di HER2. La corrispondenza tra il fenotipo “triplo negativo” individuato su base immunoistochimica e il sottogruppo intrinseco “basal like” individuato su base genica, esiste solo nell’80% circa dei casi, a dimostrazione ulteriore dell’estrema eterogeneità presente all’interno di questi sottogruppi. All’interno del sottogruppo “triplo negativo” sono compresi alcuni istotipi speciali come il midollare tipico e l’adenoido-cistico, a basso rischio di ripresa. Analisi retrospettive hanno associato i quattro sottotipi a differenze in sopravvivenza libera da malattia, sedi di ripresa di malattia e sopravvivenza globale (15).
Fattori prognostici e predittivi
I fattori prognostici sono correlati alla prognosi della paziente (alla sopravvivenza) mentre i fattori predittivi alla eventuale efficacia di un trattamento antitumorale. Esistono fattori prognostici che si sono dimostrati essere importanti (16) ed utili nella scelta del tipo di trattamento quali:
Dimensioni del tumore;
Stato dei linfonodi ascellari;
Grado istologico;
Attività proliferativa (Ki67);
Tipo istologico;
Invasione vascolare;
Stato di HER-2;
Stato dei recettori ormonali;
Età della paziente (< 35 anni: prognosi peggiore)
Profili di espressione genica
Attività proliferativa: l’attività proliferativa misurata con il Ki67 labeling index (percentuale di nuclei di cellule tumorali che si colorano con l’anticorpo per la proteina Mib1 codificata dal gene KI67) è oggi un fattore prognostico riconosciuto. Alcuni studi hanno mostrato il suo valore prognostico e la sua utilità nel predire la risposta e l’outcome clinico (17). In uno studio condotto su 357 tumori della mammella studiati con i profili di espressione genica, nei 144 casi identificati come luminali in base alla metodica molecolare, è stato identificato all’immunoistochimica un cut-off del Ki67 pari al 14%, in grado di separare i casi luminali A dai luminali B/HER2-negativi (13). Ad oggi non è ancora possibile definire un valore soglia unico al di sotto o al di sopra del quale il tumore possa essere definito a bassa o ad elevata attività proliferativa al fine di predire l’efficacia della chemioterapia o della ormonoterapia. Esistono inoltre problematiche relativamente alla standardizzazione delle procedure per la lettura del risultato (18).
Stato di HER2: la sovra-espressione di HER-2 all’immunoistochimica o l’amplificazione genica di HER2, presenti in circa il 13%-15% dei carcinomi mammari, rappresentano un consolidato fattore prognostico e un fattore predittivo di risposta ai farmaci anti-HER2 e verosimilmente di resistenza alla terapia ormonale (19). I due metodi più utilizzati sono quello immunoistochimico che valuta l’eventuale sovra-espressione del recettore HER-2 e l’ibridazione in situ mediante fluorescenza (FISH) che misura l’amplificazione del gene. II tumore viene definito HER-2 positivo se con la metodica immunoistochimica viene data una positività di 3 + o se è presente una amplificazione genica con la metodica FISH. Nei casi risultati 2+ è importante eseguire la valutazione dell’amplificazione genica.
Per definire con maggiore precisione la prognosi e selezionare il miglior trattamento per la singola paziente si stanno studiando profili genici con un numero più limitato di geni ed alcuni di questi test, valutati prevalentemente in studi retrospettivi, sono già in uso in alcuni Paesi. Sono oggi disponibili in commercio vari test di analisi dei profili genici come Prosigna, Mammaprint, Oncotype DX, Breast Cancer Index e Endopredict. Prosigna (PAM50),Mammaprint sono stati approvati in USA dall’FDA (20).
Tutte queste firme, tuttavia, necessitano ancora di essere validate su base prospettica e a questo scopo sono stati condotti tre studi prospettici randomizzati su ampia casistica che confrontano i profili genici con i criteri standard nel selezionare le pazienti con carcinoma mammario recettori ormonali positivi ed HER2 negativo che possano beneficiare di un trattamento chemioterapico adiuvante in aggiunta alla terapia ormonale.
I tumori epiteliali dell’ovaio rappresentano un gruppo eterogeneo di neoplasie con differenti caratteristiche morfologiche e biologiche. Sulla base dell’istologia, dell’immunoistochimica e delle caratteristiche molecolari, attualmente sono stati identificati cinque gruppi principali di carcinomi ovarici: carcinoma sieroso di alto grado (70%), carcinoma endometrioide (10%), carcinoma a cellule chiare (10%), carcinoma mucinoso (3%), carcinoma sieroso di basso grado (<5%) [1]. Queste neoplasie rappresentano oltre il 95% dei carcinomi ovarici e mostrano importanti differenze in termini di epidemiologia e fattori di rischio, pattern di disseminazione, alterazioni genetiche, risposta alla chemioterapia e prognosi.
Carcinoma sieroso di alto grado
Sotto il profilo genetico, a parte le mutazioni di p53, i carcinomi sierosi di alto grado presentano mutazioni germline o somatiche di BRCA1 BRCA2. Le donne con mutazioni germline di BRCA1 BRCA2 presentano un rischio variabile dal 30% al 70% di sviluppare un carcinoma ovarico nel corso della vita.
Carcinoma sieroso di basso grado
A differenza delle forme di alto grado, il carcinoma sieroso di basso grado non si associa a mutazioni di BRCA e di p53, ma, in circa i 2/3 dei casi, presenta mutazioni di BRAF e KRAS e, meno frequentemente mutazioni di ERBB2 [2, 3]. Le mutazioni di KRAS, BRAF ed ERBB2 sono mutuamente esclusive e sembrano svilupparsi precocemente durante la carcinogenesi, come suggerito dal riscontro di mutazioni di KRAS BRAF nei cistoadenomi sierosi adiacenti a tumori borderline [1-3].
Carcinoma mucinoso
Sotto il profilo genetico, le mutazioni più frequentemente riscontrate nei tumori mucinosi, sono quelle che interessano il KRAS, riscontrate in circa il 43% dei carcinomi mucinosi e nel 78% dei tumori borderline. Mutazioni meno frequenti sono rappresentate dall’over espressione/amplificazone di HER2 che, sono mutuamente esclusive con le mutazioni del KRAS [4, 5].
Il 34% circa dei tumori mucinosi non presenta mutazioni di KRAS o amplificazioni di HER2 e queste neoplasie sembrano essere associate ad un maggiore rischio di recidive e ad una prognosi peggiore rispetto ai tumori associati ad alterazioni genetiche.
Carcinoma endometrioide
Diversi studi hanno dimostrato come l’inattivazione dell’oncosoppressore PTEN possa rappresentare uno degli eventi precoci nella trasformazione maligna dei focolai di endometriosi.
Anche le mutazioni che coinvolgono ARID1A (AT-rich interactive domain 1A gene), documentate nei carcinomi endometrioidi e a cellule chiare, sono state riscontrate nei focolai di endometriosi adiacenti al tumore [1, 6, 7]. Un’altra comune alterazione genetica in queste neoplasie è rappresentata dalle mutazioni somatiche di beta- catenina (CTNNB1), identificabili anche attraverso l’immunoistochimica sotto forma di un’espressione nucleare aberrante. Queste mutazioni di beta-catenina sembrano essere associate alla presenza di metaplasia squamosa, a tumori di basso grado e ad una prognosi favorevole .[8]
Similarmente alla loro controparte endometriale, anche i tumori endometrioidi ovarici possono essere associati all’instabilità dei microsatelliti in una percentuale di casi variabile dal 12 al 19% [1]
Carcinoma a cellule chiare (CCC)
Il carcinoma a cellule chiare rappresenta il 10% dei tumori ovarici e solitamente si manifesta in stadio FIGO 1 o 2 [1]. Anche per queste neoplasie è stata dimostrata una stretta associazione con l’endometriosi e, inoltre, è stato dimostrato come in questi casi i pazienti presentino una prognosi favorevole [1, 9].
Sotto il profilo genetico, i CCC sono caratterizzati da mutazioni dal PTEN (perdita di espressione, mutazioni inattivanti o attivanti) e da mutazioni di ARID1A.Recentemente è stato inoltre dimostrato come le mutazioni attivanti di PIK3CA, spesso riscontrate nei CCC siano correlate con una prognosi favorevole [1, 10, 11].

 

Fattori prognostici biomolecolari
Il progressivo aumento delle conoscenze sulla biologia molecolare della malattia, rendono chiaramente insufficiente una stratificazione del rischio basata solo su dati clinici e patologici.
Tra i fattori prognostici biomolecolari, uno dei più studiati è rappresentato dall’angiogenesi. L’importanza della formazione di nuovi vasi nella progressione tumorale è stata sottolineata da studi che hanno mostrato come il potenziale angiogenetico sia correlato a cattiva prognosi. La valutazione quantitativa della microdensità vascolare del tumore è stata studiata in diverse neoplasie solide, ed anche nel carcinoma ovarico, e correlata con l’evoluzione clinica. Inoltre fra i markers dell’angiogenesi, il “vascular endothelial growth factor” (VEGF), che ha capacità di stimolare la proliferazione di cellule endoteliali in vitro e che possiede attività angiogenetica in vivo, quando è iper-espresso dalle cellule del tumore risulta correlato con un’evoluzione sfavorevole. In particolare, in un recente studio l’espressione del VEGF-C è risultato essere una variabile prognostica indipendente sfavorevole per la sopravvivenza libera da progressione [12]. Tali dati sperimentali sostengono l’impiego di farmaci VEGF inibitori per sopprimere la neoangiogenesi tumorale. D’ altro canto i recenti studi clinici randomizzati GOG 218, ICON 7 e OCEANS, confermano il beneficio clinico dell’aggiunta del bevacizumab al trattamento chemioterapico sia di prima linea che di seconda linea nel carcinoma ovarico.
Tra i fattori prognostici del carcinoma ovarico occorre sottolineare il ruolo dell’espressione dell’enzima ciclo-ossigenasi-2 (COX-2). [13] La produzione di COX-2 è stimolata da agenti quali citochine infiammatorie, e fattori di crescita. Dati recenti suggeriscono inoltre il ruolo di COX-2 nel processo dell’angiogenesi: l’espressione di COX-2 è correlata con la produzione di VEGF, la migrazione di cellule endoteliali e la formazione di reti vascolari. Studi recenti hanno mostrato come anche nelle malignità ovariche, l’angiogenesi sia strettamente correlata alla iper-espressione di COX-2 e che entrambi siano più espressi nelle pazienti con carcinoma ovarico con bassa sopravvivenza, rispetto alle pazienti che mostrano una lunga sopravvivenza.
Tra i fattori biologici studiati, la p53 ha mostrato di svolgere un ruolo determinante nella responsività alla chemioterapia, in particolare è emerso che una sovraespressione della p53 correla con una minore responsività ai composti del platino e dunque una prognosi peggiore, ma migliore risposta ai regimi contenenti taxani. Il successo dell’associazione Taxolo/Platino sembra riflettere l’efficacia dei farmaci su diverse popolazioni cellulari ognuna con un quadro mutazionale differente. Le mutazioni della p53 sono presenti in circa il 70% dei tumori ovarici.
Molte evidenze scientifiche hanno confermato il ruolo determinante della proteina p21 nel modulare l’azione della p53 bloccando il ciclo cellulare e favorendo l’apoptosi indotta da agenti genotossici. La positività immunoistochimica per tale proteina, in cellule di tumore ovarico, sembra correlare con una migliore prognosi. La presenza di inattivazione dell’inibitore delle chinasi ciclino- dipendenti p16 in tessuti carcinomatosi ovarici è stata da alcuni autori associata a ridotta risposta alla chemioterapia e a prognosi sfavorevole [14-17].
I futuri trial clinici sul trattamento del carcinoma ovarico dovrebbero stratificare le pazienti sulla base delle caratteristiche morfologiche e molecolari. Infatti, i farmaci chemioterapici classici, attivi nei confronti dei tumori di tipo II rapidamente proliferanti, potrebbero essere meno efficaci nei tumori di tipo I che sono a crescita assai più lenta e che pertanto necessitano di approcci terapeutici innovativi. Ad esempio, gli inibitori di MEK potrebbero essere utilizzati nel trattamento dei carcinomi sierosi di basso grado, che presentano spesso mutazione di RAS o BRAF [18].
Lo stato mutazionale di KRAS potrebbe essere utilizzato per la selezione di pazienti con carcinoma ovarico mucinoso che potrebbero beneficiare di una terapia con agenti anti Epidermal Growth Factor Receptor [EGFR], in analogia con l’esperienza del carcinoma colo-rettale e del carcinoma polmonare non a piccole cellule [19, 20].
 
 
Fattori genetici familiari
Studi recenti di popolazione hanno evidenziato che le pazienti affette da carcinoma ovarico presentano una prevalenza di varianti patogenetiche costituzionali BRCA >10%, indipendentemente dall’età alla diagnosi e dalla presenza di storia familiare per tumore della mammella/ovaio [21]. La prevalenza di tali varianti patogenetiche aumenta nelle pazienti con carcinoma ovarico sieroso (17- 20%) [21-23] e nelle pazienti platino-sensibili (30-40%). Inoltre, circa il 25% delle portatrici di variante patogenetica BRCA hanno una diagnosi di carcinoma ovarico ad un’età superiore ai 60 anni [1, 21-26].
Le sindromi genetiche individuate sono:
La Breast-ovarian cancer syndrome (legate a una mutazione dei geni BRCA1/BRCA2);
La Site Specific Ovarian Cancer Syndrome (legata a una mutazione dei geni BRCA1/BRCA2);
La Sindrome di Lynch 2 (HNPCC) che include carcinoma del colon non associato a poliposi, carcinomi endometriali, mammari, ovarici e altri con minore frequenza;
Sindrome di Cowden, legata a una mutazione di PTEN, con associazione tra tumori ovarici e tumori cerebrali;
Sindrome di Gorlin, legata a una mutazione di PTC, con associazione tra tumori ovarici e nevi multipli.
La perdita di funzione del BRCA1 e BRCA2 per mutazione germinale patogenetica sopprime il meccanismo della ricombinazione omologa e causa la sindrome del carcinoma mammario ed ovarico ereditario, caratterizzata da un aumentato rischio nell’arco della vita di carcinoma della mammella (40- 80%) e dell’ovaio (11-40%) [27]. La prevalenza di mutazioni germinali di BRCA nella popolazione generale di donne con carcinoma ovarico è ritenuta essere intorno al 10-15% [22], ma questo valore è in realtà sottostimato soprattutto in quelle con carcinoma sieroso di alto grado [28]. L’analisi di 1001 donne con carcinoma non mucinoso dell’ovaio incluse in uno studio caso- controllo australiano ha evidenziato mutazioni germinali di BRCA nel 14.1% delle pazienti complessive, nel 6.3% di quelle con istologia a cellule chiare, nell’8.4% di quelle con istologia endometrioide, nel 16.6% di quelle con istologia sierosa, e nel 17.1% di quelle con carcinoma sieroso di alto grado [21]. In funzione dell’età, mutazioni di BRCA germinale sono state trovate nel 15.6% delle donne <40 anni, nel 24.2% di quelle tra 41 e 50 anni, nel 17.1% di quelle tra 51 e 60 anni, e nell’ 8.3% di quelle > 61 anni.
È degno di nota che il 44% delle donne mutate non avevano storia familiare di carcinoma della mammella o dell’ovaio. Le mutazioni di BRCA rappresentano il primo marcatore predittivo genotipico nel carcinoma ovarico e il BRCA test deve essere richiesto a tutte le donne con neoplasia epiteliale non mucinosa e non borderline dell’ovaio, indipendentemente dall’età e dalla storia familiare [29]. Le BRCA- mutate con carcinoma ovarico hanno una prognosi migliore delle donne con carcinoma ovarico non ereditario [30, 31].
Il test BRCA può essere eseguito anche su tessuto neoplastico, evidenziando così sia le varianti ereditarie sia le varianti acquisite per mutazione somatica. In presenza di un test positivo sul tumore, va sempre eseguito il test genetico su un campione di sangue per distinguere le mutazioni germline, che rendono necessario il counseling ed il test genetico nei familiari, da quelle somatiche [2].
Il deficit di ricombinazione omologa (HRD) è stato osservato non soltanto nelle pazienti con carcinoma ovarico con mutazioni germline o somatica di BRCA1BRCA2, ma anche in quelle con silenziamento epigenetico di BRCA1, o perdita di funzione di altri geni, quali RAD51, ATM, PALB2, FANC, BARD, BRIP, ecc [32-37].
Queste pazienti hanno un fenotipo “BRCAness” che è simile a quello delle pazienti con mutazioni germinali di BRCA1 BRCA2, e comprende istologia sierosa, elevate percentuali di risposta alla prima e alle successive linee di terapia a base di platino, lunghi intervalli di tempo tra le recidive, e migliore OS [38, 39-41].
La presenza di un tale profilo BRCAness identifica un sottogruppo di pazienti con carcinoma ovarico sporadico a prognosi migliore, e con una ottima responsività al platino e agli agenti PARP inibitori [42].
I carcinomi ovarici in donne con mutazione di BRCA germinale hanno un più alto carico mutazionale ed un maggior numero di neoantigeni che stimolano il reclutamento di linfociti infiltranti il tumore (tumor infiltrating lymphocytes, TIL) [43-45]. Questi tumori mostrano un aumentato numero di CD3+ e CD8+ TIL ed elevata espressione di PD-1 e PD-L1, e potrebbero pertanto rappresentare un sottogruppo di neoplasie particolarmente sensibile al trattamento con inibitori dei check-point immunitari da soli o in combinazione con i PARP inibitori e/o la chemioterapia.
Una altra sindrome ereditaria associata al carcinoma ovarico è la Sindrome di Lynch legata alla instabilità dei microsatelliti (MSI) che predispone ad un aumentato rischio di carcinomi del colon, dell’endometrio e dell’ovaio. La prognosi del carcinoma ovarico nelle donne con sindrome di Lynch è migliore di quella delle donne, sempre con carcinoma ovarico, ma con mutazioni dei geni BRCA. Ciò può essere dovuto alla elevata percentuale di tumori in I-II stadio alla diagnosi (> 80%) nelle donne con sindrome di Lynch. [46]
NEOPLASIE DELL’ENDOMETRIO
Fattori eredo-familiari
Oltre ad una maggiore predisposizione genetica al solo carcinoma endometriale, è possibile una predisposizione familiare a sviluppare tumori maligni in diversi organi (sindrome di Lynch di tipo II: endometrio, mammella, colon ed ovaio) (1). Nelle donne con sindrome di Lynch il rischio correlato all’insorgenza di tumori maligni è del 40-80% per carcinoma del colon, 40-60% per carcinoma dell’endometrio e 10- 12% per carcinoma ovarico (2). L’insorgenza di una neoplasia endometriale in una donna giovane può essere considerato come un evento sentinella di una sindrome di Lynch e deve indurre all’attivazione di una diagnostica per sospetto tumore eredo-familiare.
Istopatologia e biologia molecolare
I tumori endometriali derivano dalle cellule ghiandolari di derivazione mulleriana. Nel 1983, Bokhman (3), sulla base di uno studio prospettico clinico-patologico, formulò l’ipotesi dell’esistenza di due varianti di carcinoma endometriale con diversa patogenesi:
carcinoma endometrioide di tipo I, estrogeno-dipendente,
il carcinoma non-endometrioide di tipo II, non estrogeno-dipendente, rappresentato dal carcinoma sieroso e dal carcinoma a cellule chiare(4,5)
Carcinomi istologicamente bene o moderatamente differenziati sono tipici del primo gruppo; sono diagnosticati in stadi più frequentemente iniziali e sono associati ad una prognosi più favorevole. Il secondo gruppo include i carcinomi scarsamente differenziati con evoluzione più rapida e sfavorevole. La patogenesi molecolare di queste forme è profondamente diversa.
Le principali alterazioni molecolari del carcinoma di tipo I sono rappresentate dal silenziamento del gene PTEN (Phosphatase andTensin homolog on chromosome 10) (6), da difetti dei geni di riparazione del DNA, da instabilità dei microsatelliti e da mutazioni dei geni KRAS e/o β-catenina e/o PIK3(Phosphatidylinositol 3-Kinase).
I carcinomi sierosi spesso presentano mutazioni del gene p53, inattivazione del gene p16, bassa espressione di E-caderina ed iperespressione di HER-2. Il profilo immunofenotipico e molecolare del carcinoma a cellule chiare non è ancora ben definito, anche se dati recenti sembrano evidenziare l’importanza della mutazione del gene ARID1A (7).
Lo stadio FIGO, il grado di differenziazione, la profondità di invasione miometriale, l’invasione degli spazi linfovascolari (LVSI), l’interessamento cervicale e lo stato linfonodale sono le più comuni variabili prognostiche per il carcinoma di tipo I. Nel 2013 la pubblicazione su Nature del lavoro del Cancer Genome Atlas Research Network (TCGA) sulla caratterizzazione genomica di 373 campioni di carcinoma endometriale (307 endometrioidi, 53 sierosi e 13 misti endometrioidi-sierosi) ha tracciato una nuova classificazione dei carcinomi endometriali basata sulle caratteristiche biomolecolari e più complessa rispetto alla tradizionale categorizzazione dualistica.
La classificazione molecolare individua 4 sottogruppi:
1) POLE ultramutated, caratterizzati da elevata mutagenicità (in particolare mutazioni del dominio esonucleasico di POLE 58 – subunità ε della DNA polimerasi coinvolta nel processo di replicazione del DNA – infrequenti aberrazioni del numero di copie geniche, frequenti sostituzioni C→A, mutazioni di PTENPIK3R1PIK3CAFBXW7, e KRAS) e outcome favorevole;
2) MSI hypermutated, caratterizzati da instabilità dei microsatelliti secondaria a metilazione del promoter di MLH1, elevata mutagenicità, infrequenti aberrazioni del numero di copie geniche, ricorrenti delezioni frameshift di RPL22 e mutazioni di KRAS e PTEN;
3) Copy Number Low (generalmente endometrioidi G1-G2), caratterizzati da stabilità dei microsatelliti, bassa mutagenicità, frequenti mutazioni di CTNNB1;
4) Copy Number High (serous-like) caratterizzato da frequenti aberrazioni del numero di copie geniche, bassa mutagenicità, frequenti mutazioni di TP53FBXW7, and PPP2R1A, rare mutazioni di PTEN e KRAS, outcome sfavorevole (8).
Dal punto di vista clinico l’importanza di questa nuova classificazione è legata soprattutto alle peculiari caratteristiche dei tumori MSI, che presentano alterazioni del “mismatch repair” e sono stati associati a carcinoma endometriale eredo-familiare, che insorge nel contesto della Sindrome di Lynch. La determinazione immunoistochimica della MSI su pezzo tumorale potrebbe entrare nella routine della pratica clinica soprattutto per le pazienti più giovani anche perché tale caratteristica molecolare è stata identificata come potenziale fattore predittivo di risposta agli immunoterapici di nuova generazione. Lo score Promise basato sulle caratteristiche molecolari è stato di recente validato come score prognostico (9).
Nuove prospettive terapeutiche
La sopravvivenza mediana delle pazienti con recidiva di tumore dell’endometrio difficilmente supera i 12 mesi e la patologia metastatica rappresenta dunque un “unmet clinical need” per la comunità scientifica. Nuovi farmaci e nuove prospettive terapeutiche si affacciano all’armamentario delle terapie attualmente disponibili. Ad oggi sono state sperimentate diverse target therapies in questa neoplasia ma nessuna è stata poi ammessa nella pratica clinica.
Uno dei pathway biomolecolari più frequentemente alterati nel carcinoma dell’endometrio tipo 1 è quello che coinvolge l’asse PTEN-PI3K-AKT-mTOR, in cui la mutazione del gene oncosoppressore PTEN, presente nel 40-60% dei carcinomi, crea una attivazione costitutiva del pathway che si traduce in una incontrollata proliferazione cellulare. Diversi inibitori di mTOR sono stati testati in studi di fase 2 nelle pazienti con recidiva di carcinoma dell’endometrio con risultati incoraggianti; Temsirolimus ha riportato 7.5% di RR e 44% di stabilizzazioni di malattia in una popolazione di 27 pazienti con recidiva pre-trattata di carcinoma dell’endometrio (10-12).
Un’elevata espressione del Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) è stata documentata nel 56% delle pazienti con carcinoma dell’endometrio a cui si associa un peggioramento della prognosi. Il Bevacizumab, un anticorpo monoclonale diretto contro il VEGF, ha fatto registrare nel trattamento del carcinoma dell’endometrio un tasso di risposte del 15% e 36% con un PFS mediana di 4.2 mesi e un OS mediana di 10.5 mesi in una popolazione di 53 pazienti con recidiva di carcinoma dell’endometrio pretrattate con 1-2 linee di chemioterapia (13). Alcuni risultati interessanti sono stati ottenuti con l’inibizione dell’angiogenesi in due studi randomizzati di fase II e III (14,15). Non sono state registrate differenze in termini di sopravvivenza libera da progressione di malattia, tuttavia la sopravvivenza globale del gruppo paclitaxel/carboplatino/bevacizumab era significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo storico (34.0 versus 22.7 mesi, P < 0.039).
Nello studio MITO END-2 (16) che ha incluso 108 pazienti con carcinoma endometriale avanzato o recidivante che avevano ricevuto fino ad 1 linea di trattamento precedente, il bevacizumab è stato somministrato in associazione a 6-8 cicli di carboplatino taxolo e poi continuato in mantenimento. Questo ha consentito un aumento significativo della sopravvivenza libera da progressione di malattia (13 versus 8.7 mesi, P = 0.036) ed un incremento della sopravvivenza globale mediana (23.5 versus 18 mesi, P = 0.24), sebbene questi ultimi dati non fossero ancora maturi.
Altri possibili target biomolecolari sono attualmente obiettivo di studio. Il RAS-RAF-MEK-ERK rappresenta un altro interessante pathway biomolecolare che partecipa alla patogenesi di questo tumore (17,18). Il Fibroblast growth factor-2 (FGFR2) è mutato nel 10%–14% dei carcinomi endometriali ed è un target per inibitore dei recettori tirosin chinasici(19).
Recentemente il TCGA (The Cancer Genome Atlas) inoltre ha svolto una caratterizzazione genomica integrata del carcinoma endometriale (20); sono state individuate alterazioni dei geni del sistema di riparo del DNA omologo ricombinante e dei geni del “mismatch repair” nei tumori endometrioidi; tali alterazioni potrebbero rappresentare un bersaglio per la terapia individualizzata.
Dati incoraggianti supportano la relazione tra l’iperespressione del pathway PD-1 / PD-L1 nel carcinoma dell’endometrio, l’elevata instabilità genomica e l’attività degli immunecheckpoint inhibitors. Queste evidenze suggeriscono una spiegazione razionale per testare l’immunoterapia in questi sottogruppi tumorali. Ulteriori dati hanno evidenziato che i tumori dell’endometrio con alto tasso mutazionale sono correlati con un incremento del numero dei TIL e dell’espressione dell’asse PD1/PD-L1 suggerendo che i sottotipi POLE-mutated o MS potrebbero essere dei buoni candidati per l’immunoterapia.
IL CARCINOMA DELLA CERVICE UTERINA
L’infezione da papillomavirus umano (HPV) ha un ruolo determinante nello sviluppo della neoplasia cervicale; in circa il 99.7% dei carcinomi della cervice si ritrova il DNA del virus. L’infezione da HPV è molto diffusa (si calcola una prevalenza nella popolazione generale che supera l’80%) ed è ritenuta la condizione necessaria, ma non sufficiente per lo sviluppo della neoplasia invasiva. Nella maggior parte dei casi infatti l’organismo umano ha una capacità di clearance naturale del virus che arriva all’80% entro 1-2 anni dal primo contatto. La contemporanea esistenza di concause (terapia con estro-progestinici, immunodepressione, altre infezioni sessualmente trasmesse) creano le condizioni per cui si instauri una infezione persistente da HPV che è la condizione più rischiosa per lo sviluppo del carcinoma della cervice uterina(21).
Gli studi di patologia molecolare hanno consentito di identificare oltre 200 sottotipi virali di cui oltre 30 oncogeni per l’uomo. Si tratta di un DNA virus formato da un capside esterno costituito da 72 capsomeri all’interno dei quali distinguiamo 2 proteine strutturali:
L1 proteina capsidica maggiore, peso molecolare di 55 kd rappresenta l’80% delle proteine capsidiche
L2 proteina capsidica minore, peso molecolare di 70 kd rappresenta il restante 20% delle proteine capsidiche
L’infezione da HPV è legata a tutti i gradi di neoplasia cervicale intraepiteliale (CIN) e al cancro invasivo della cervice. L’infezione con HPV di tipo 16, 18, è responsabile di circa il 70% dei carcinomi invasivi, con una prevalenza nella fascia di età 30-39 anni rispetto all’età >70 anni (74.8 vs 56.8, p=0.04) (22). Il restante 30% è dovuto ai sottotipi 45, 31, 33, 58, 52. I condilomi acuminati sono legati invece ad infezioni da parte dei ceppi virali 6-11 (23).
Il virus HPV ha uno ruolo predominante nello sviluppo dei 2 istotipi più comuni, squamoso e adenocarcinoma. I ceppi di HPV associati con l’istotipo squamoso sono differenti da quelli associati con adenocarcinoma (24). In particolare:
Squamoso: HPV 16 (59% dei casi), 18 (13% dei casi), 58 (5% dei casi), 33 (5% dei casi), 45 (4% dei casi);
Adenocarcinoma: HPV 16 (36 % dei casi), 18 (37% dei casi), 45 (5% dei casi), 31 (2% dei casi), 33 (2% dei casi).
La maggior parte delle infezioni sono transitorie e il virus da solo non è sufficiente per causare la neoplasia. Quando l’infezione persiste, il tempo che intercorre tra l’infezione iniziale, lo sviluppo di neoplasia intraepiteliale di alto grado e successivamente di carcinoma invasivo è solitamente di circa 15 anni, anche se sono stati descritti tempi minori (24).

 

Biologia molecolare
Il genoma dell’HPV 16 e 18 è costituito da sei geni (E1, E2, E6-7) responsabili della replicazione del virus, e da due regioni L1-L2 codificanti le proteine del capside virale. Quando il DNA virale si integra in quello della cellula ospite, si verifica la perdita di inibizione mediata dalla proteina E2 nei confronti delle proteine E6 ed E7 che inattivando Rb e p53 determinano la formazione del fenotipo trasformato. Dalla discrepanza numerica tra l’incidenza dell’infezione da HPV e l’incidenza del carcinoma della cervice uterina appare evidente che esistono una serie di cofattori necessari per trasformare l’infezione da transitoria a persistente e favorire quindi la progressione neoplastica. (25)
Screening
HPV DNA test
Le infezioni da Human Papilloma Virus (HPV) colpiscono le cellule basali dell’epitelio cervicale e quindi tutte le malattie HPV – correlate hanno origine epiteliale e si estendono per contatto, senza fasi di viremia sistemica. I ceppi di HPV associati allo sviluppo del tumore appartengono alla specie 9 (HPV 16, 31, 33, 35, 52, 58, 67) e alla specie 7 (HPV 18, 45, 39, 70, 59, 68, c85) ma, da soli, HPV 16 e 18 causano circa il 50% di tutte le infezioni. L’infezione da HPV è un evento che si può verificare durante l’intera vita di una donna, in qualche caso fin dall’infanzia. Il picco di prevalenza è compreso tra i 16 e i 25 anni, poi l’incidenza cala progressivamente al 10% verso il periodo peri- menopausale dove, in molti casi, si assiste ad una seconda recrudescenza dell’infezione. Si può quindi affermare che non esista un’età nella quale un’infezione da HPV possa essere esclusa, pertanto una efficace protezione contro l’HPV deve iniziare precocemente e proseguire fino all’attesa settima-ottava decade di vita.
Il 90% delle infezioni sostenute da ceppi oncogenetici si verifica senza sequele di malattia e la prevalenza di queste infezioni nelle donne con citologia cervicale normale è pari al 5-7%. Il test tradizionalmente impiegato per lungo tempo nello screening per il cancro del collo dell’utero è stato il Pap-test. Negli ultimi anni, sono stati pubblicati i risultati di numerosi studi sperimentali per la valutazione dell’uso del test HPV come test primario di screening, i quali hanno dimostrato che lo screening cervicale basato su test validati per il DNA di tipi oncogeni di HPV (test HPV) è più efficace dello screening basato sulla citologia nel prevenire i tumori invasivi della cervice (26).
Il Piano Sanitario Nazionale 2014-2018 ha sollecitato le Regioni a mutare il test di prevenzione secondaria (27). Il nuovo test di screening si dovrà basare sulla ricerca dell’infezione dell’HPV ad alto rischio. L’esame dovrà essere effettuato non prima dei 30 anni ed essere ripetuto con intervalli non inferiori ai 5 anni. Se il test HPV risulterà positivo, la donna dovrà sottoporsi ad un Pap-test e, se anch’esso sarà confermato positivo, la donna dovrà sottoporsi a colposcopia. Dai 25 a 30-35 anni l’esame di riferimento rimarrà il Pap test da eseguirsi ogni tre anni.
Tests urinari molecolari
Molti studi hanno valutato il ruolo di markers urinari molecolari nella diagnosi e nel follow-up della neoplasia vescicale. Alcuni tests sono già reperibili nel mercato. Si dividono in markers solubili (BTA STAT, BTATRAK, NMP22, NMP52, BLCA-4, BLCA1, survivina, acido ialuronico, citocheratine) o cellulari (telomerasi, FISHanalisi microsatellite del DNA, DD23, prodotti di degradazione del fibrinogeno). La maggior parte di questi tests ha una sensibilità superiore alla citologia urinaria nell’individuare le forme di grado basso-intermedio ma una specificità troppo bassa perché possano essere ritenute una valida alternativa alla citologia urinaria (1).
Sottotipi molecolari
Il carcinoma della vescica muscolo invasivo (MIBC, Muscle-Invasive Bladder Cancer) è considerato genomicamente instabile con carico mutazionale elevato; circa il 50% dei casi di MIBC recidivano dopo chirurgia [2-5]. La morfologia e la classificazione patologica nei MIBC possono risultare sub-ottimali nel selezionare la migliore opzione terapeutica disponibile [6]; l’identificazione a tal fine di marcatori molecolari di mancata risposta è essenziale.
Dati recenti suggeriscono che determinate mutazioni, specialmente dei geni ERCC2, ERBB2 e dei geni di riparazione del DNA, potrebbero predire la risposta al trattamento chemioterapico neoadiuvante (NAC, neoadiuvant chemotherapy); i risultati del trial clinico COXEN potranno aiutare l’oncologo nella decisione terapeutica [7].
Il carcinoma uroteliale muscolo invasivo è stato recentemente suddiviso in sottogruppi molecolari utilizzando una piattaforma multipla genomica e trascrittomica (RNA) in diverse popolazioni di pazienti, allo scopo di individuare biomarcatori di risposta alla NAC [5, 6, 8]. In base all’espressione di RNA i tumori sono stati classificati in basali, luminali e luminali infiltrati con ulteriori sotto-classificazioni specifiche in base al sistema utilizzato. Il sottotipo claudin-low (bassa espressione di claudina) è inserito tra i basali ed è caratterizzato dalla perdita della differenziazione epiteliale e da elevata immuno-infiltrazione [5, 6, 8, 9].
Il gruppo di Wezel ha pubblicato una panoramica della tassonomia attuale dei sottotipi molecolari nei carcinomi uroteliali provenienti da 5 banche dati indipendenti, che anche se differenti tra di loro presentano similitudini dei clusters nei confronti dell’invasione, prognosi e risposta alla chemioterapia e all’immunoterapia [5].
Si elencano le diverse classificazioni molecolari riportate da Wezel; quella di Seiler e della TCGA hanno armonizzato tutte le precedenti e sono le più citate :
Classificazione UNC (University North Carolina: luminali-basali-claudin low) [5]
Classificazione MDA (MD Anderson Cancer Center: luminali-p53-like, basale) [5]
Classificazione Lund (Università di Lund: Uro A, genomicamente instabili, infiltrati, SCC-like, UroB) [5]
Classificazione di Seiler (luminali, luminali infiltrati, basale, claudin low).
L’autore ha valutato in uno studio retrospettivo 343 pazienti con diagnosi di MIBC su TURB (cT2-4a, N0, M0) prima della NAC, utilizzando la classificazione molecolare per assegnare ogni singolo campione ad un sottotipo. Pazienti con tumore basale, che ricevevano 3 cicli di NAC a base di platino, avevano una OS a 3 anni del 77.8% (95%CI 67.2-90.0%; p<0.001) in confronto al 49.2% (95% CI, 39.5-61.2%; <0.001) nella coorte di 476 pazienti che non ricevevano NAC [6].
Classificazione TCGA (Atlante Genomico del Cancro: Luminale I, luminale II, basale III e claudin low IV).
Gli autori hanno pubblicato un’analisi globale su 412 RNA di MIBC, che ha consentito l’identificazione di subsets con differente stato epitelio-mesenchimale. 58 geni sono risultati mutati in maniera significativa mediante attività APOBEC e sono stati definiti 8 gruppi di mutazioni con sopravvivenza a 5 anni del 75% [9]. Il TCGA attribuisce il 60% delle forme al sottogruppo luminale, il 35 % al sottogruppo basale/squamoso e il 5% al sottotipo “neuronale”.
Il sottogruppo luminale si suddivide in:
a) luminale-papillare, poco responsivo alla NAC, può presentare la mutazione per il gene FGFR (fibroblast growth factor receptor) sensibile al trattamento con Erdafinib, come valutato in uno studio di fase II e già autorizzato dall’FDA [5, 9];
b) luminale-infiltrato poco responsivo alla NAC ma sensibile agli inibitori dei checkpoint immunologici (anti- PD-L1, PD-1, CTLA-4), il cluster II sembra beneficiare dall’atezolizumab con un tasso di risposta globale del 34%, come riportato nel Trial IMvigor 210 [5, 9].
Il sottogruppo basale comprende anche le forme squamose che sono sensibili alla NAC, nello studio CheckMate 275 i pazienti con questo profilo molecolare (cluster III) sembrano beneficiare dal trattamento nivolumab con un tasso di risposta del 30% [5, 9].
I tumori claudin-low presentano l’outcome peggiore a prescindere dal trattamento con NAC.
Il sottotipo “neuronale” è a prognosi infausta e si caratterizza per una buona risposta alla NAC con etoposide e cisplatino [9].
I bias di questi studi sono legati al disegno retrospettivo, l’analisi risulta falsata dal confronto tra coorti di pazienti provenienti da studi differenti condotti in epoche diverse. Si rende necessaria la validazione della classificazione molecolare in studi prospettici con una coorte di pazienti più numerosa, per aggiungere valore alla stadiazione TNM e personalizzare il trattamento.
I meccanismi di cancerogenesi e l’eterogeneità tumorale
Il carcinoma del colon retto (CRC) è caratterizzato da alterazioni molecolari a carico di numerosi oncogeni e geni oncosoppressori che cooperano nel determinare la trasformazione neoplastica. Circa l’80% dei casi di CRC sono di tipo sporadico. Il rimanente 20% è considerato di tipo familiare o legato a sindromi genetiche, come la poliposi adenomatosa familiare, associata a mutazioni del gene APC (adenomatous polyposis coli), ed il carcinoma del colon-retto ereditario non-poliposico, caratterizzato da mutazioni germinali dei geni mismatch repair (MMR), soprattutto hMSH2, hMSH6, hMLH1 e hPMS2. Queste due sindromi genetiche rappresentano, rispettivamente, meno dell’1% ed il 2-3% di tutti i casi di CRC.
Nella cancerogenesi del colon si distinguono tre principali pathways di trasformazione:
L’instabilità legata a microsatelliti (MSI): i microsatelliti sono brevi sequenze ripetute di DNA presenti normalmente nel genoma umano. A causa di specifiche mutazioni, i microsatelliti possono diventare in maniera anomala più corti o più lunghi rendendo il DNA instabile. La MSI si ritrova nel 15% circa dei casi sporadici di cancro del colon, ma rappresenta la principale alterazione genetica (>95%) nella sindrome di Lynch (carcinoma del colon-retto ereditario non poliposico);
L’instabilità cromosomica (CIN): la maggioranza dei CRC sporadici mostra un certo grado di CIN che, a differenza della MSI, è associata a gravi anomalie cromosomiche, come delezioni ed inserzioni, con attivazione di proto-oncogeni ed inattivazione di geni tumor-suppressor, così come aneuploidia o poliploidia cromosomica. Numerosi geni coinvolti nella carcinogenesi intestinale subiscono alterazioni genetiche dovute alla CIN, come APC, TP53, KRAS, BRAF, PTEN, SRC, TGF-b, SMAD 2 e 4, nonché la timosina b-4.
La metilazione aberrante del DNA: la trascrizione dei geni è regolata da cosiddette sequenze promotrici che regolano il legame dei fattori di trascrizione al gene di interesse. La metilazione delle sequenze promotrici è un fine meccanismo di regolazione della trascrizione genica, in quanto altera la capacità dei fattori di trascrizione di legarsi ad esse e promuovere la trascrizione. L’ipermetilazione anomala delle sequenze nucleotidiche dei promotori è frequente nel DNA dei pazienti affetti da CRC (fenotipo CIMP: CpG island hypermethylation phenotype). Circa il 20-25% dei CRC hanno un fenotipo CIMP-High, un’altrettanta frazione ha un fenotipo CIMP-Low.
Studi recenti hanno dimostrato che il CRC è estremamente complesso dal punto di vista molecolare, essendo questa malattia caratterizzata da molteplici alterazioni molecolari che spesso coesistono nello stesso tumore. Diverse classificazioni molecolari del CRC basate su analisi di espressione genica sono state proposte. Recentemente, un consorzio internazionale ha unificato queste classificazioni identificando quattro sottotipi molecolari con implicazioni prognostiche e predittive [1]. Questa classificazione include informazioni relative non solo alle alterazioni genetiche ed epigenetiche del CRC ma anche alla interazione tra cellule neoplastiche e microambiente tumorale. Tuttavia, questo approccio non è ancora utilizzabile a fini clinici nella pratica quotidiana per la complessità delle analisi richieste.
La caratterizzazione molecolare nella pratica clinica
Nei pazienti con stadio II e III la caratterizzazione molecolare non viene attualmente effettuata in maniera routinaria, sebbene essa potrebbe fornire alcune informazioni utili sulla prognosi dei pazienti. Infatti, una serie di studi hanno dimostrato in maniera abbastanza consistente che la presenza di MSI è associata ad una migliore prognosi della malattia [2-8]. Nei pazienti con carcinoma del colon retto in stadio II la determinazione della MSI potrebbe essere di ausilio nella decisione di somministrare o meno la terapia adiuvante, vista la prognosi estremamente favorevole di questi pazienti. Più controverso è l’impiego di analisi mutazionali nei pazienti con malattia limitata. A tale riguardo, la maggioranza degli studi condotti sono anche concordi nell’indicare che la presenza della mutazione BRAF V600E sia associata ad una peggiore prognosi della malattia in pazienti con carcinoma del colon retto in stadio II o III [2, 7-18]. Tuttavia, il significato prognostico negativo di questa mutazione sembra essere particolarmente rilevante nei tumori MSS[4, 9, 12]. I tumori MSI con mutazione di BRAF avrebbero comunque una prognosi favorevole, sebbene alcuni studi suggeriscano che la presenza della mutazione V600E individui nel contesto delle neoplasie con MSI un sottogruppo a prognosi relativamente peggiore [4, 5, 17].
Gli studi sul ruolo prognostico delle mutazioni di KRAS nel carcinoma del colon retto operabile hanno riportato risultati discordanti. Mentre alcuni studi hanno indicato un possibile ruolo prognostico di queste mutazioni [13, 16, 19-21], altri non hanno confermato tale correlazione [2, 8, 11, 12]. Inoltre, differenze sono state riportate per le diverse mutazioni di KRAS, anche se in maniera contrastante [15, 19, 22].
Nel complesso, le analisi mutazionali non sembrano comunque aggiungere informazioni rilevanti sulla prognosi dei pazienti in stadio II e III. La determinazione della MSI nei pazienti in stadio II rimane l’unica indagine che può essere di ausilio nella decisione di somministrare o meno una terapia adiuvante. La caratterizzazione molecolare ha invece assunto un ruolo fondamentale nella programmazione terapeutica dei pazienti con malattia metastatica. In questo ambito esistono tuttavia livelli di evidenza differenti per le varie alterazioni molecolari del carcinoma del colon-retto.
Nel paziente con tumore del colon-retto metastatico, al momento di intraprendere un trattamento, deve essere effettuata la valutazione dello stato mutazionale di KRAS ed NRAS. La presenza di mutazioni somatiche nei geni KRAS ed NRAS è infatti un meccanismo di resistenza agli anticorpi monoclonali anti-EGFR e, pertanto, l’analisi mutazionale è indispensabile per una corretta programmazione terapeutica. Dal punto di vista meccanicistico, la presenza di mutazioni dei geni RAS, determinando l’attivazione costitutiva di una delle principali vie di trasmissione dell’EGFR, rende non efficace il blocco del recettore [23].
Questa ipotesi di laboratorio è stata confermata in una serie di studi clinici. Una serie di analisi retrospettive ha infatti dimostrato che mutazioni dell’esone 2 di KRAS (codoni 12 e 13) sono associate a resistenza alla terapia anti-EGFR in pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico, nel contesto di studi randomizzati in cui cetuximab o panitumumab erano utilizzati in monoterapia o in combinazione con chemioterapia [24-31]. Due metanalisi hanno confermato il valore predittivo negativo delle mutazioni di KRAS esone 2 rispetto al trattamento con farmaci anti-EGFR [32, 33]. Infatti, entrambe le metanalisi hanno dimostrato un chiaro vantaggio derivante dall’impiego dei farmaci anti-EGFR nei soli pazienti privi di mutazioni nell’esone 2 di KRAS.
Tuttavia, per gli studi di prima e seconda linea di combinazione con la chemioterapia, il vantaggio è limitato ai soli studi in cui i farmaci anti-EGFR sono stati impiegati in combinazione con regimi basati sull’impiego del 5FU infusionale [33]. In circa il 15-20% dei casi KRAS esone 2 wild type sono tuttavia presenti altre mutazioni meno frequenti di KRAS (esoni 3 e 4) e di NRAS (esoni 2, 3 e 4). A tale riguardo è stata condotta una metanalisi degli studi randomizzati che hanno valutato l’impatto delle “nuove” mutazioni di RAS sulla efficacia della terapia anti- EGFR nel carcinoma del colon retto metastatico [34-43]. La metanalisi ha dimostrato che il trattamento con farmaci anti-EGFR determina una PFS ed una OS superiore nei pazienti senza mutazioni di RAS rispetto a quelli con “nuove” mutazioni dei geni RAS. I pazienti con nuove mutazioni di RAS hanno mostrato un andamento clinico simile ai pazienti con mutazioni di KRAS nell’esone 2, quando trattati con farmaci anti-EGFR. Nessuna differenza è stata evidenziata tra farmaci anti- EGFR diversi, differenti linee di terapia e diversi chemioterapici utilizzati in combinazione. Inoltre, l’analisi combinata dei diversi studi ha dimostrato che la terapia a base di farmaci anti-EGFR determina un significativo prolungamento della PFS e della OS nei pazienti che non hanno mutazioni di RAS, mentre nessun beneficio in termini di sopravvivenza è stato osservato nei pazienti con qualsiasi mutazione di RAS. Sulla base di questi risultati, EMA ed AIFA hanno ristretto l’impiego di Panitumumab e di Cetuximab ai soli pazienti RAS wild type (ovvero pazienti che non hanno mutazioni negli esoni 2, 3 e 4 di KRAS e NRAS). Alcuni studi hanno riportato un ruolo prognostico delle mutazioni di KRAS in pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico [31, 44], che però non è stato confermato in altri studi [25, 45].
Più complessa è la valutazione del ruolo dell’analisi dello stato mutazionale di BRAF nel paziente con tumore del colon-retto metastatico. Le mutazioni di BRAF sono presenti in circa il 10% dei pazienti con carcinoma del colon retto e nei pazienti metastatici sono spesso associate a localizzazione al colon destro e presenza di metastasi al peritoneo ed in linfonodi a distanza [46]. Numerosi studi sono concordi nell’indicare la mutazione BRAF V600E quale fattore prognostico sfavorevole in pazienti con carcinoma del colon retto metastatico [11, 14, 15, 46, 47]. Tale correlazione prognostica è stata confermata in studi clinici randomizzati che hanno evidenziato una sostanziale resistenza alla chemioterapia convenzionale dei pazienti con mutazione di BRAF [38, 48, 49]. Nei pazienti con recidiva di malattia dopo resezione del tumore primitivo, la presenza della mutazione BRAF V600E è associata con una ridotta sopravvivenza post-recidiva [50]. Analogamente, alcuni studi hanno dimostrato che in pazienti che ricevono un intervento di resezione di metastasi epatiche, la mutazione BRAF V600E è correlata con una minore sopravvivenza [51-53]. Tuttavia, uno studio recente non ha confermato il ruolo prognostico delle mutazioni di BRAF in pazienti con carcinoma del colon retto metastatico che ricevevano un intervento di resezione della malattia metastatica [54]. Un limite di molti studi condotti sulle mutazioni di BRAF è rappresentato dal numero limitato di pazienti analizzato a causa della relativa bassa frequenza di questa mutazione nel carcinoma del colon retto. Una recente analisi combinata di tre studi randomizzati ha confermato il ruolo prognostico negativo della mutazione BRAF V600E in pazienti con carcinoma del colon retto metastatico [55]. Tuttavia, una notevole eterogeneità di andamento clinico è stata rilevata, con il 24.3% dei casi BRAF mutati che hanno mostrato una buona risposta alle terapie ed una sopravvivenza mediana di 24 mesi ed un 36.5% dei pazienti con invece rapida progressione di malattia e sopravvivenza di 4.7 mesi [55]. La valutazione dell’eventuale ruolo predittivo della mutazione BRAF V600E rispetto alle terapie anti-EGFR ha riportato risultati contrastanti. Diversi studi in cui farmaci anti-EGFR sono stati utilizzati per il trattamento di pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico in prima linea in associazione a polichemioterapia [36, 38, 56, 57], in seconda linea in associazione ad irinotecano [40] o a polichemioterapia [39], oppure in monoterapia in linee avanzate [41, 58], hanno esplorato il ruolo predittivo della mutazione BRAF V600E senza giungere ad una conclusione univoca. Due diverse metanalisi hanno analizzato il fenomeno con conclusioni in qualche modo contrastanti [59, 60]. Uno dei problemi delle metanalisi effettuate è di aver considerato insieme studi estremamente eterogenei nei criteri di inclusione e nelle terapie somministrate.
Infine, la introduzione nella pratica clinica di metodiche multiplex per l’analisi delle mutazioni somatiche nel carcinoma del colon-retto ha rivelato l’ìesistenza di mutazioni non-V600E di BRAF che sembrano avere un ruolo prognostico differente. In particolare, uno studio italiano ha riportato che le mutazioni di BRAF nei codoni 594 e 596 sono associate ad una migliore prognosi della malattia, sebbene il numero di casi in analisi fosse limitato [61]. Più recentemente, una analisi di 9.643 pazienti con carcinoma del colon retto metastatico ha identificato mutazioni di BRAF non-V600 nel 2.2% dei casi [62]. La presenza di queste mutazioni è risultata essere associata con una prognosi eccellente, sebbene l’analisi abbia incluso mutazioni sia attivanti che inattivanti l’attività chinasica di BRAF. L’eventuale interazione di queste mutazioni di BRAF con le terapie non è conosciuta.
In conclusione, l’analisi della mutazione BRAF V600E può fornire informazioni prognostiche nei pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico e dovrebbe essere eseguita nella pratica clinica prima di intraprendere un trattamento di prima linea. Per le altre mutazioni di BRAF non abbiamo ancora dati sufficienti per sostenerne l’analisi in pratica clinica.
L’esecuzione dei test di biologia molecolare
L’analisi mutazionale di KRAS ed NRAS può essere condotta con diverse metodiche e deve riguardare almeno i codoni 12, 13, 59, 61, 117 e 146 di entrambi i geni. In considerazione dell’alta concordanza fra le mutazioni riscontrate nei tumori primitivi e nelle corrispondenti metastasi epatiche, la determinazione dello stato mutazionale di RAS può essere effettuata indifferentemente su tessuto tumorale primitivo o metastatico [63, 64]. Un tasso di discordanza del 25% circa è stato invece descritto tra tumore primitivo e metastasi linfonodali e polmonari [65, 66]. Infine, alcuni studi hanno evidenziato la possibilità di eseguire il test RAS su DNA tumorale circolante isolato da sangue periferico ed un kit dedicato è stato recentemente approvato per l’utilizzo clinico avendo ricevuto la certificazione CE-IVD [67-70]. È importante tuttavia sottolineare la centralità del tessuto per la corretta diagnosi istopatologica e la caratterizzazione molecolare del CRC. L’analisi del DNA tumorale circolante è pertanto consigliata in casi particolari in cui non sia disponibile tessuto adeguato per il test molecolare e dovrà essere comunque condotta con metodiche approvate per l’impiego clinico ed in laboratori di riferimento. L’impiego della biopsia liquida per il monitoraggio molecolare della malattia è invece un approccio sperimentale e come tale deve essere limitato a studi clinici. Minori informazioni sono disponibili rispetto alla possibile eterogeneità delle mutazioni di BRAF, anche se dati recenti suggeriscono che essa potrebbe essere superiore a quella dei geni RAS [71].
Biomarcatori prognostici e predittivi emergenti
Numerosi studi retrospettivi suggeriscono che alterazioni molecolari a carico di altri geni collegati alla via di trasduzione del segnale di EGFR, quali ad esempio PIK3CA, PTEN, potrebbero svolgere un ruolo nel determinare resistenza a farmaci anti-EGFR [73, 74]. Tuttavia, la maggioranza di questi dati sono stati ottenuti in studi retrospettivi in cui i pazienti erano trattati con farmaci anti-EGFR come monoterapia nel contesto della pratica clinica o, comunque, in assenza di un braccio di controllo. Inoltre, per alcuni dei geni citati, i risultati riportati in letteratura sono discordanti. Pertanto, il loro impiego quali fattori predittivi di resistenza ai farmaci anti-EGFR non è attualmente raccomandato nella pratica clinica.
Recenti studi hanno evidenziato un possibile ruolo di alterazioni genetiche di ERBB2 (HER2) nella patogenesi del carcinoma del colon-retto. Amplificazione oppure mutazioni di ERBB2, sia puntiformi che piccole inserzioni/delezioni, sono state descritte in un sottogruppo di pazienti con neoplasie del colon-retto. La percentuale di casi con alterazioni di ERBB2 varia notevolmente tra gli studi, probabilmente a causa del numero limitato di casi analizzati e della varietà di metodiche di analisi impiegate, soprattutto per l’amplificazione genica studiata in alcuni casi solo a livello di espressione della proteina con metodiche di immunoistochimica [75]. Uno studio recente, che ha analizzato mediante tecniche di next generation sequencing 8887 casi di carcinomi del colon-retto metastatici, ha evidenziato la presenza di amplificazione di ERBB2 nel 2.8% dei casi, di mutazioni nel 1.5% e di amplificazione e mutazione nello 0.4% [76]. Dato che la frequenza delle mutazioni di RAS è in genere inferiore tra i casi con amplificazione di ERBB2 rispetto a quelli senza amplificazione, la frequenza della amplificazione di ERBB2 nei tumori RAS wild-type è attesa nell’ordine del 4-5% [75, 76]. In letteratura ci sono dati contrastanti sul possibile ruolo prognostico delle alterazioni di ERBB2 come pure sulla eventuale associazione con la sede di malattia [75]. Alcuni studi hanno esplorato il ruolo predittivo della amplificazione di ERBB2 in pazienti con malattia metastatica trattati con diverse combinazioni di farmaci anti-EGFR in diverse linee di trattamento [77-80]. Questi studi hanno descritto un ridotto tasso di risposte ed una ridotta sopravvivenza in pazienti con amplificazione di ERBB2 rispetto a quelli senza amplificazione di ERBB2. Tuttavia, si tratta di analisi retrospettive, con casistiche eterogenee in cui tutti i pazienti (negativi e positivi per l’amplificazione di ERBB2) avevano ricevuto il trattamento con farmaci anti-EGFR. Pertanto, questi studi non consentono di distinguere formalmente tra un effetto prognostico o predittivo di questa alterazione genetica, che andrebbe esplorato nel contesto di trials randomizzati. Dati preliminari incoraggianti suggeriscono che la amplificazione di ERBB2 potrebbe essere un importante marcatore di risposta a farmaci anti-ERBB2. In studi di fase II che hanno impiegato diverse combinazioni di farmaci anti-ERBB2, tassi di risposta variabili tra il 30% ed il 71% sono stati descritti [77, 81-83]. Numerosi studi sono in corso ed i loro risultati saranno importanti per definire meglio il ruolo delle terapie anti-ERBB2 nel carcinoma del colon-retto metastatico. Infine, i risultati di un basket trial in cui pazienti con mutazioni di ERBB2/ERBB3 sono stati trattati con uno specifico inibitore, hanno evidenziato come pazienti con carcinoma del colon-retto non rispondano a questa terapia a differenza di altri tipi istologici [84].
Un ruolo predittivo potrebbe essere svolto anche dalla MSI. Diversi studi di fase II hanno dimostrato un elevato tasso di risposte ad inibitori di PD-1/PD-L1 in pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico ed MSI o deficienza dei meccanismi di riparo del DNA, condizione in genere associata a MSI [85-87]. È interessante sottolineare come risposte siano state ottenute in pazienti MSI con diversi tipi istologici di tumore [86]. In base a questi dati, la Food and Drug Administration (FDA) con una decisione storica ha approvato l’impiego di pembrolizumab in pazienti con MSI indipendentemente dalla origine istologica della neoplasia. Tuttavia, questa indicazione non è stata ancora approvata in Europa. Pertanto, il test MSI nei pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico dovrebbe essere eseguito solo se è possibile offrire al paziente un trattamento attraverso uno studio clinico.
Infine, la metilazione di MGMT rappresenta un possibile target per un trattamento farmacologico ed è pure oggetto di studio [88, 89]. Analogamente, nel carcinoma del colon retto sono state descritte alterazioni molecolari a carico di ALK, ROS1, NTRK e RET che, pur essendo a bassa frequenza, possono rappresentare importanti bersagli per interventi terapeutici [90, 91].
Farmacogenetica
I farmaci citotossici sono metabolizzati attraverso complessi meccanismi nei quali sono coinvolte diverse attività enzimatiche. Alterazioni degli enzimi deputati al metabolismo degli agenti citotossici che ne determinino una ridotta funzionalità comportano un accumulo del farmaco o di suoi metaboliti attivi con possibile incremento della tossicità. Numerosi studi hanno evidenziato che varianti geniche di enzimi coinvolti nel metabolismo delle fluoropirimidine e dell’irinotecano sono associate ad un più elevato rischio di tossicità (92).
I dati più consistenti presenti ad oggi in letteratura riguardano la diidropirimidina deidrogenasi (DPD), principale enzima del metabolismo delle fluoropirimidine (93, 94), e l’uridina-glucuronosil-transferasi (UGT) coinvolto nel metabolismo epatico del SN-38, metabolita attivo dell’irinotecano (95). In particolare, le varianti c.IVS14+1G>A e c.2846A>T della DPD sono state associate a tossicità di grado severo in pazienti trattati con fluoropirimidine in numerosi studi, sebbene dati discordanti siano presenti in letteratura (95-97). Ad esempio, anche se tutti gli studi concordino nel sostenere che pazienti con la variante c.IVS14+1G>A sviluppano tossicità quando trattati con fluoropirimidine, dati discordanti sono stati riportati sulla frequenza dei pazienti con tossicità da fluoropirimidine riconducibile al suddetto polimorfismo (5,5%-29%). Risultati discordanti sono stati pubblicati anche per la frequenza del polimorfismo c.2846A>T. Per quanto riguarda l’UGT, la variante allelica UGT1A1*28 è associata a ridotto metabolismo dell’irinotecano. Numerosi studi hanno rivelato che pazienti con tale variante vanno incontro più frequentemente a tossicità ematologica e diarrea (95). Tuttavia, il rischio di tossicità è dose-dipendente ed in genere non osservato a dosi <150 mg/m2 (98,99). Una riduzione di dosi è comunque raccomandata in soggetti omozigoti per la variante UGT1A1*28. Infine, studi di farmacogenetica hanno anche suggerito che soggetti portatori dell’allele wild type UGT1A1*1 potrebbero tollerare dosi più elevate di irinotecano e questo potrebbe determinare un migliore risultato terapeutico(100). Le analisi farmacogenetiche (DPD per le fluoropirimidine e UGT1A1*1/*28 per l’irinotecano) possono essere considerate:
In pre-terapia ogni qual volta, a giudizio dell’oncologo, il trattamento venga proposto per un paziente in cui per le caratteristiche cliniche (comorbidità, PS, stadio di malattia) sia elevato il rapporto;
Durante la terapia, nei casi di tossicità gastrointestinale di grado ≥3 o ematologica di grado 4 e nei casi di tossicità inattese.
Caratterizzazione biomolecolare
Negli ultimi anni lo studio delle caratteristiche molecolari dei tumori del polmone ha evidenziato un ruolo specifico di alcuni geni che rappresentano importanti bersagli terapeutici, tra cui EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor) e ALK (Anaplastic Lymphoma Kinase) [1]. Nel NSCLC (in particolare nel 10-15% degli ADC dei pazienti caucasici e nel 40% dei pazienti asiatici) sono state identificate mutazioni attivanti di EGFR a carico degli esoni 18, 19, 20 e 21, la cui presenza rappresenta il più importante fattore predittivo per adottare terapie a bersaglio molecolare con specifici inibitori tirosino-chinasici dell’EGFR. KRASè un oncogene mutato nel 20-30% degli ADC polmonari, particolarmente nella popolazione caucasica fumatrice ed in forme muco-secernenti o solide. Più recentemente, sono state documentate nuove alterazioni molecolari che identificano altri sottogruppi di ADC: sul braccio corto del cromosoma 2 il riarrangiamento dell’oncogene ALK con l’oncogene EML-4 (o più raramente con altri geni di fusione) produce una specifica proteina ad attività tirosino-chinasica coinvolta nei processi di proliferazione e sopravvivenza cellulare. Esso è presente nel 3-7% circa degli ADC polmonari. La determinazione del riarrangiamento del gene ALK è necessaria per selezionare i pazienti da sottoporre a trattamento con inibitori tirosino-chinasici specifici di ALK (crizotinib, il primo ad essere impiegato nella pratica clinica, e altri quali il ceritinib e l’alectinib). Altre alterazioni molecolari, particolarmente nell’ADC, con promettente ricaduta terapeutica per la disponibilità di inibitori specifici sono rappresentate dal riarrangiamento del gene ROS1 (circa l’1-2% di ADC) e del gene RET, mutazioni attivanti di BRAF (sia V600E che non-V600E) ed HER2 [1]. L’amplificazione di FGFR1, la mutazione di PI3KCA e di PTEN, l’amplificazione e la mutazione di PDGFR, nonchè la mutazione di DDR2 sono invece alterazioni molecolari che potrebbero avere in futuro implicazioni terapeutiche nel CS [16]. Attualmente, solo EGFR ed ALK rappresentano bersagli molecolari con terapia specifica disponibile, e dunque vanno sempre testati, come riportato di seguito (crizotinib ha dimostrato elevata attività anche nei casi ROS1+)Il ruolo della mutazione di KRAS (seppure rappresenti il driver molecolare più frequentemente implicato nell’ADC polmonare e la presenza di mutazioni di KRAS sia stata evidenziata come un fattore predittivo negativo per l’uso di inibitori tirosin-chinasici dell’EGFR) è ancora incerto. Pertanto, la determinazione di KRAS contemporaneamente a EGFR e ALK rimane opzionale. Mentre EGFR KRAS sono solitamente alterazioni geniche mutualmente esclusive, il riarrangiamento di ALK è stato riscontrato nell’1-2% dei tumori EGFR mutati.
A proposito della determinazione dello stato mutazionale di EGFR, le raccomandazioni elaborate dall’AIOM in collaborazione con la Società Italiana di Anatomia Patologica e Citologia diagnostica (SIAPEC) prevedono che:
la determinazione dello stato mutazionale di EGFR si rende necessaria per la scelta della migliore strategia terapeutica in pazienti selezionati con NSCLC in stadio avanzato;
possono essere sottoposti a esame mutazionale del gene EGFR i pazienti con NSCLC ad istotipo ADC, CGC, NSCLC misto con ADC e NSCLC N.A.S., i quali presentano la più alta probabilità di riscontro di mutazioni; nei casi di carcinoma squamoso “puro” (p40 +/TTF1-), il paziente può non essere testato in quanto sicuramente EGFR non mutato, con l’eccezione dei rari casi di carcinoma squamoso in pazienti giovani o non fumatori, in cui il test va comunque eseguito.
La determinazione delle mutazioni di EGFR può essere eseguita su pezzo operatorio oppure su prelievo bioptico o citologico del tumore primitivo e/o della metastasi;
Nei pazienti non fumatori, deboli fumatori (<15 pacchetti/anno o ≤5 sigarette al giorno) ed ex-fumatori (da ≥15 anni) con gli istotipi suddetti, in cui non è disponibile un adeguato materiale, può essere indicato un ulteriore prelievo bioptico per permettere la successiva determinazione molecolare qualora clinicamente indicato. Se un campione del tumore non è valutabile o disponibile, allora può essere utilizzato il DNA tumorale circolante (ctDNA) ottenuto da un campione di sangue (plasma). È importante sottolineare che in Italia, al momento, tale analisi è eseguibile solo presso alcuni centri selezionati.
Relativamente alla determinazione del riarrangiamento di ALK, le raccomandazioni elaborate dall’AIOM in collaborazione con la SIAPEC prevedono che:
L’esame di ALK trova indicazione nei pazienti con NSCLC con istotipo ADC, CGC, NSCLC misto con ADC e NSCLC N.A.S., che presentano la più alta probabilità di riscontro di riarrangiamenti del gene;
La determinazione delle alterazioni di ALK può essere eseguita su pezzo operatorio, oppure su prelievo bioptico o citologico del tumore primitivo e/o della metastasi;
Nei pazienti a più alta probabilità in assoluto di alterazioni di ALK, ovvero non fumatori, deboli fumatori (<15 pacchetti/anno o ≤5 sigarette al giorno) ed ex-fumatori (da ≥15 anni) con gli istotipi suddetti, per i quali non sia disponibile un adeguato materiale, può essere indicato un ulteriore prelievo bioptico per permettere la successiva determinazione molecolare qualora clinicamente indicato.
Inizialmente, l’indagine diagnostica di riferimento per la determinazione di ALK era la FISH (Fluorescence In Situ Hybridization), anche se nell’approvazione EMA faceva già riferimento alla positività di ALK con un “test validato” (es. IIC o RT-PCR). Negli ultimi anni, le evidenze a sostegno della tecnica IIC sono aumentate. La norma dell’autorizzazione della rimborsabilità di crizotinib da parte di AIFA (aprile 2015) specifica che i test utilizzabili per l’identificazione dei pazienti con riarrangiamento di ALK, eleggibili per il trattamento con crizotinib sono sia l’immunoistochimica che la FISH.
Attualmente la scelta del trattamento per i pazienti con NSCLC in stadio avanzato (stadio IIIB/IIIC non suscettibile di trattamenti locoregionali e stadio IV) si basa su:
istologia (squamosa verso non-squamosa);
presenza di alterazioni molecolari driver (principalmente mutazione di EGFR, riarrangiamento di ALK o riarrangiamento di ROS1) che identificano una malattia oncogene-addicted – livello di espressione di PD-L1;
caratteristiche cliniche del paziente (età, performance status, comorbidità).
Malattia oncogene-addicted
Sono ormai note numerose alterazioni molecolari del NSCLC che condizionano la biologia del tumore, alcune delle quali rappresentano un target terapeutico per trattamenti a bersaglio molecolare, mentre altre potrebbero rappresentarlo in futuro [1, 2]. In particolare, nell’adenocarcinoma sono state identificate mutazioni attivanti del gene KRAS (nel 20-30% dei casi), mutazioni attivanti del gene EGFR (nel 10-15% dei pazienti caucasici e fino al 40% dei pazienti asiatici), riarrangiamenti del gene ALK (identificati in circa il 3- 7% dei casi), del gene ROS-1 (in circa l’1-2% dei casi), del gene RET, mutazioni del gene BRAF, mutazioni del gene HER2 e amplificazioni o mutazioni del gene MET [3-10]. Nei carcinomi squamosi sono state invece identificate l’amplificazione di FGFR1, mutazioni di PI3KCA, mutazioni di PTEN, amplificazione e mutazioni di PDGFR, mutazioni di DDR2 [2].
Attualmente sono approvati e rimborsati in Italia farmaci inibitori delle tirosino-chinasi di EGFR, ALK e ROS-1. Tutti i pazienti con istologia non-squammosa o mista, ma anche i pazienti con istologia squamosa pura soprattutto se giovani e/o non fumatori, o se con diagnosi fatta su piccole biopsie, dovrebbero essere testati per EGFRALK ROS-1. Laddove possibile, una caratterizzazione molecolare più estesa può essere utile nell’identificare pazienti con altre alterazioni molecolari driver suscettibili di trattamento con farmaci a bersaglio molecolare nell’ambito di studi clinici o programmi di accesso allargato [11].
Trattamento della malattia EGFR-mutata
Le mutazioni di EGFR più frequenti sono la delezione dell’esone 19 (Ex19del) e la mutazione puntiforme L858R dell’esone 21, che insieme rappresentano circa il 90% dei casi. Il restante 10% delle mutazioni di EGFR è rappresentato da un gruppo eterogeneo di alterazioni molecolari (dette mutazioni non comuni o rare) che interessano gli esoni 18-21 (esone 18: G719C, G719S, G719A, V689M, N700D, E709K/Q, S720P; esone 20: inserzioni e mutazioni V765A, S768I, V769L, T783A e T790M; esone 21: mutazioni N826S, A839T, K846R, L861Q, G863D) [12].
Gli inibitori tirosino-chinasici di EGFR rappresentano il trattamento di scelta per la prima linea nei pazienti con NSCLC avanzato e con mutazioni classiche (Ex19del e L858R) [13-21]. Per il trattamento di prima linea dei pazienti con mutazione di EGFR, al momento della stesura di queste linee guida (settembre 2018) sono approvati e rimborsati in Italia gli inibitori reversibili di EGFR di prima generazione gefitinib ed erlotinib, e l’inibitore irreversibile pan-Erb di seconda generazione afatinib. Non vi sono al momento dati certi sulla superiorità di uno di questi farmaci rispetto ad un altro.
La necessità di identificare tutte le mutazioni clinicamente rilevanti del gene EGFR che consentono la selezione di un paziente al trattamento con gli inibitori tirosino-chinasici di EGFR impone l’impiego di procedure diagnostiche con un adatto reference range; in altri termini, è necessario l’impiego di tecnologie in grado di rilevare tutte le mutazioni di EGFR sopra citate, specificandolo nella refertazione con le adeguate nomenclature internazionali [22].
Trattamento della malattia ALK-riarrangiata
La terapia di scelta nel trattamento di I linea in caso di riarrangiamento di ALK è un inibitore tirosino- chinasico di ALK. Gli inibitori di ALK approvati e rimborsati in Italia per la prima linea sono l’inibitore di prima generazione crizotinib, e l’inibitore di seconda generazione alectinib [23-25].
Trattamento della malattia ROS1-riarrangiata
Riarrangiamenti di ROS1 si verificano in circa l’1% dei pazienti con NSCLC e si riscontrano più frequentemente in pazienti con istologia adenocarcinoma e non fumatori o fumatori leggeri. Sebbene sia un recettore tirosino-chinasico distinto da ALK, entrambi hanno una struttura molto simile. Attualmente l’unico farmaco approvato e rimborsato in Italia per il trattamento del NSCLC avanzato con riarrangiamento di ROS1 è il crizotinib.
Malattia non-oncogene-addicted
Nei pazienti con NSCLC avanzato senza alterazioni molecolari drivers suscettibili di trattamento a bersaglio molecolare, attualmente la scelta del trattamento si basa principalmente sul livello di espressione di PD-L1, sull’istologia e sulle condizioni generali del paziente.
Trattamento di prima linea
Nei pazienti con buon performance status (0-1) e con livello di espressione di PD-L1 ≥ 50%, indipendentemente dall’istotipo, il trattamento di scelta in prima linea è rappresentato dall’agente anti-PD-1 pembrolizumab [26]. La rilevazione dell’espressione di PD-L1 può essere eseguita su campioni fissati in formalina e inclusi in paraffina con una procedura validata dal laboratorio che intende offrire questa tipologia di servizio. Inoltre è di fondamentale importanza, per l’istotipo adenocarcinoma, ottenere in modo sincrono alla valutazione dell’espressione di PD-L1 anche la valutazione dello stato mutazionale di EGFRALK e, possibilmente, anche di ROS-1 [27].
Aspetti correlati alla prevenzione primaria
Genetica
Circa il 10% (8-12%) dei pazienti affetti da melanoma presentano almeno 1 familiare di primo grado affetto da tale patologia; di questi casi, circa il 20% (15-30%) sono portatori di una mutazione in geni di suscettibilità al melanoma, tra cui il gene CDKN2A che codifica per 2 proteine deputate al controllo negativo del ciclo cellulare: p16 e p14 (1,2). In rare famiglie di soggetti affetti da melanoma è stata descritta una mutazione del gene CDK4 che altera il sito d’interazione con la proteina p16, con conseguente deregolazione del ciclo cellulare. In definitiva, circa il 2% dei melanomi risultano attribuibili ad un difetto genetico ereditato a carico di geni di suscettibilità noti.
Nei pazienti con melanoma multiplo è indicato il test genetico?
In uno studio pubblicato da Bruno et al nel 2016 (3), studio caso-controllo, multicentrico su base nazionale un totale di 112 (19%) di 587 pazienti con melanoma multiplo e 26 (4.4%) di 587 pazienti con melanoma singolo hanno presentato mutazioni nel gene CDKN2A, indipendentemente dalla storia familiare. La frequenza di mutazioni in CDKN2A varia dall’11% nei casi con melanoma multiplo non associato a familiarità, al 44% nei casi con melanoma multiplo associato a familiarità. Pertanto, la soglia del 10% di probabilità, stabilita dall’American Society of Clinical Oncology (4) per l’accesso ai test genetici per predisposizione oncologica è ampiamente superata nel gruppo dei melanomi multipli, e tale criterio è da ritenersi sufficiente per l’offerta del test in Italia.
Nei pazienti con familiarità per melanoma è indicato il test genetico?
In uno studio pubblicato da Bruno et al. nel 2009 (5), studio caso-controllo multicentrico su base nazionale su 204 pazienti con melanoma familiare, la frequenza di mutazione nel gene CDKN2A è del 33% (n = 68/204) in famiglie con almeno due membri affetti da melanoma tra parenti di primo grado nello stesso ramo della famiglia. Pertanto, la soglia del 10% di probabilità, stabilita dall’American Society of Clinical Oncology (4) per l’accesso ai test genetici per predisposizione oncologica è ampiamente superata in tutti i casi con storia familiare positiva per melanoma (anche con soli due parenti di primo grado affetti), e tale criterio è da ritenersi sufficiente per l’offerta del test in Italia. L’identificazione di pazienti con mutazione germinale in CDKN2A non ha alcun impatto clinico, ma indirizza le famiglie di tali probandi (famiglie ad alto rischio di malattia) a percorsi di prevenzione primaria e secondaria; per tale motivo il bilancio rischio/beneficio dell’esecuzione del test appare favorevole ma va discusso con il paziente.
Classificazione molecolare
Alterazioni genetico-molecolari caratterizzano specifiche entità nosologiche definite nell’attuale classificazione WHO delle lesioni melanocitarie (6), in particolare, specifiche mutazioni in geni che codificano per chinasi coinvolte nella via di trasmissione del segnale delle RAS/RAF/MEK/ERK chinasi attivate dai mitogeni (Mitogen Activated Protein Kinases; MAPK), responsabile della regolazione dei processi di proliferazione, invasione e sopravvivenza cellulare.
Un recente studio di sequenziamento dell’intero genoma condotto su tumori primari e metastatici da 331 pazienti con melanoma cutaneo ha identificato quattro distinti sottotipi molecolari sulla base dei seguenti assetti mutazionali: casi con mutazioni attivanti il gene BRAF, casi con mutazioni attivanti i geni RAS (includendo le tre isoforme: H-, K- e, soprattutto, N-RAS), casi con mutazione inattivanti il gene NF1 (che determinano attivazione funzionale dei geni RAS), casi senza mutazioni in questi tre geni (triple wild-type) (7).
La valutazione dello stato mutazionale di BRAF può essere effettuata mediante metodiche diverse, a diverso grado di sensibilità e specificità. L’analisi mutazionale si basa su metodiche di screening a livello proteico (quali il test immunoistochimico) e/o metodiche di tipo molecolare su DNA genomico – che includono: il sequenziamento nucleotidico diretto del prodotto di amplificazione genica (ottenuto mediante PCR), il pirosequenziamento, la Real-Time PCR e la spettrometria di massa (Sequenom).
In relazione al beneficio clinico derivante dalla corretta determinazione molecolare dello status mutazionale di BRAF e dall’iter terapeutico che ne consegue, il rapporto rischio/beneficio di questa determinazione mutazionale è considerato notevolmente favorevole.
Nei pazienti con melanoma stadio III inoperabile o stadio IV è indicata l’analisi mutazionale di NRAS e cKIT?
Le mutazioni a carico del gene NRAS sono in genere mutualmente esclusive rispetto a BRAF e si osservano nel 15-20% dei melanomi, con frequenze pressoché sovrapponibili nei diversi sottotipi clinici di melanoma (8). La valutazione dello stato mutazionale del gene NRAS può essere indicata in caso di assenza di mutazioni a carico del gene BRAF in pazienti con melanoma in stadio III inoperabile o metastatico (stadio IV) (9). In presenza della mutazione NRAS, vi è la possibilità di inserire i pazienti in studi clinici con inibitori di MEK [Livello di evidenza 3] sebbene recenti evidenze abbiano dimostrato elevata tossicità ed una minima efficacia terapeutica (10,11) [Livello di evidenza 1+].
Le mutazioni del gene c-KIT si osservano complessivamente nell’1-3% dei melanomi, con maggiore frequenza nei melanomi mucosali (20%), nei melanomi acrali (15%) e nei melanomi su cute cronicamente fotoesposta (3%), risultando pressoché assenti nei melanomi in aree cutanee non esposte cronicamente al sole (12-14). Tra le mutazioni di c-KIT, quelle più frequentemente associate al melanoma sono rappresentate dalla mutazione L576P nell’esone 11 e dalla mutazione K642E nell’esone 13. La valutazione dello stato mutazionale di c-KIT è pertanto indicata nei melanomi acrali e mucosali [Livello di evidenza 3]. Tuttavia, in considerazione della bassa frequenza delle mutazioni in c-KIT, nel caso di melanomi acrali e mucosali è indicata una prima valutazione delle mutazioni nei geni BRAF NRAS. In presenza di melanomi BRAF NRAS wild-type, si procede alla valutazione delle mutazioni del gene c-KIT per la possibilità, in presenza di mutazione, di trattare i pazienti con inibitori di c-KIT (15) [Livello di evidenza 3].
In relazione al potenziale beneficio clinico derivante dalla corretta determinazione molecolare dello status mutazionale di NRAS c-KIT nonché dalla possibilità di inserire il paziente in uno studio clinico, il rapporto rischio/beneficio di questa determinazione mutazionale è considerato favorevole.
Terapia sistemica e radioterapia
Fino a poco tempo fa lo scopo del trattamento della malattia metastatica non operabile poteva considerarsi quasi esclusivamente palliativo, dal momento che i chemioterapici a disposizione hanno dimostrato nel corso degli anni un effetto limitato e scarsamente curativo nella maggior parte dei casi. Negli ultimi anni il progressivo affermarsi di nuovi farmaci ha permesso di osservare dei vantaggi in termini di sopravvivenza, come nel caso dell’ipilimumab, dei farmaci anti PD1 o dei farmaci BRAF e MEK inibitori.
Immunoterapia
Negli ultimi anni l’introduzione dei farmaci inibitori dei checkpoint immunologici ha rappresentato una svolta molto importante nell’immunoterapia del melanoma. Il primo farmaco che si è reso disponibile in clinica è stato l’ipilimumab, anticorpo monoclonale diretto contro il recettore CTLA4, presente sui linfociti T attivati e che regola fisiologicamente la risposta immunitaria. Infatti, il legame di CTLA4 con il suo ligando B7 (CD86), genera un segnale negativo che induce uno stato di anergia nei linfociti. Il legame dell’anticorpo anti-CTLA4 alla suddetta molecola, impedendo l’innesco di questi segnali inibitori si traduce in un potenziamento dell’attività T linfocitaria anti-tumorale. La registrazione dell’ipilimumab è avvenuta sulla base di uno studio randomizzato di fase III a tre braccia (17) effettuato su 676 pazienti pretrattati. Ipilimumab, è però associato al rischio di effetti collaterali immuno-correlati.
Più recentemente sono stati introdotti in clinica anticorpi diretti contro il checkpoint inibitorio PD-1 (nivolumab e pembrolizumab) che nel corso del 2016 hanno ottenuto la rimborsabilità dell’AIFA nel trattamento del melanoma avanzato (stadio IV o III non resecabile). Questi anticorpi immunomodulanti si sono dimostrati superiori in termini di efficacia e tollerabilità rispetto a ipilimumab.
Terapie a bersaglio molecolare
Nei pazienti con melanoma in stadio IV e IIIC non operabile e mutazione di BRAF V600, è raccomandabile il trattamento con BRAF e MEK inibitore, rispetto al trattamento con solo BRAF inibitore?
Negli studi pubblicati da Long et al (18), COMBI-d, da Robert et al (19), COMBI-v e da Larkin et al (20), con update Ascierto et al (20), CO-BRIM, il trattamento di combinazione con BRAF+MEK inibitore presenta un buon profilo di tollerabilità, con una generale riduzione degli eventi avversi cutanei tipici del trattamento con BRAF inibitore (es. lesioni iperproliferative). Tuttavia è da segnalare un modesto incremento del rischio di tossicità oculare, diarrea e ipertensione nel braccio di combinazione; inoltre il trattamento con dabrafenib-trametinib si associa ad un incremento del rischio di piressia, mentre il trattamento con vemurafenib-cobimetinib presenta maggiore fotosensibilità e aumento delle transaminasi. Considerato il beneficio in sopravvivenza e il profilo di tollerabilità, il bilancio rischio/beneficio del trattamento con BRAF+MEK inibitore rispetto al solo BRAF inibitore appare favorevole.
Dati meno consistenti sono attualmente disponibili in sottotipi molecolari di melanoma BRAF non mutato (es. NRAS, c-KIT). Per quanto riguarda i melanomi con mutazione di NRAS, sono stati pubblicati i dati dello studio NEMO (randomizzato di fase III, 2:1 con MEK inibitore binimetinib vs dacarbazina) (21). La popolazione in studio (n=242) era rappresentata da pazienti con melanoma avanzato, presenza di mutazione di NRAS, non pretrattati oppure in progressione a immunoterapia. L’endpoint primario era la PFS. Il trattamento con binimetinib si è dimostato superiore al trattamento con dacarbazina (PFS mediana 2.8 vs 1.5 mesi, HR=0.62, 95% CI 0.47-0.80). Il beneficio è stato maggiore nel gruppo pretrattato con immunoterapia (PFS mediana 5.5 mesi vs 1.6 mesi nel braccio con binimetinib e dacarbazina, rispettivamente). In termini di OS non è stata evidenziata una differenza statisticamente significativa.
Nel caso di melanomi delle mucose, delle estremità (acrali), e delle aree esposte cronicamente al sole (lentiginosi), è stata dimostrata la presenza di mutazioni del gene c-KIT che predispongono alla risposta al trattamento con c-KIT inibitori (imatinib, nilotinib). Anche se in numero limitato, diverse esperienze cliniche evidenziano risposte importanti con l’uso di c-KIT inibitori nei melanomi che presentano mutazioni all’esone 9, 11 o 13 (22). Uno studio cinese di fase II ha riportato tassi di risposta del 20-30% e il prolungamento della sopravvivenza libera da progressione con il trattamento con imatinib (23). In Italia imatinib è stato approvato in legge 648 (Determina Aifa del 5 luglio 2017) per i melanomi metastatici inoperabili con c-KIT mutato (esone 11 e 13),non trattabili o in progressione a immunoterapia.
 

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