Letteratura scientifica Ematologia
Ematologia
INDAGINI DI LABORATORIO IN EMATOLOGIA
Al laboratorio di Genetica è affidato il compito di identificare le anomalie cromosomiche presenti nelle malattie del sangue. Le nuove acquisizioni permetteranno di potenziare la tecnica dell’Ibridazione Fluorescente in Situ (FISH), che consiste nella identificazione, mediante sonde particolari, di alterazioni presenti in piccole frazioni di cromosomi. La nuova tecnologia permette inoltre di studiare un numero di cellule superiore a quanto possibile con l’esame citogenetico tradizionale, aumentando così notevolmente la sensibilità e l’accuratezza dell’esame.
Si effettua inoltre lo studio qualitativo e quantitativo dei riarrangiamenti genetici delle più frequenti malattie linfoproliferative e mieloproliferative acute e croniche, studio finalizzato all’identificazione del marker di malattia, della risposta alla terapia mediante la tecnologia Real Time PCR.
La stessa tecnologia è impiegata per la ricerca delle varianti nei geni che codificano per i fattori II, e V della coagulazione e nel gene MTHFR, consigliata principalmente:
nell’ambito di approfondimenti per poliabortività in donne che hanno avuto almeno 3 episodi di aborto spontaneo nel primo trimestre, o per morte endouterina fetale (MEU);
nei soggetti che hanno manifestato episodi trombotici in giovane età (<45 anni) o che presentano a prescindere dall’età una localizzazione inusuale del trombo (vene cerebrali, mesenteriche, portali o spleniche);
familiari (figli, fratelli e sorelle) di soggetti portatori di mutazioni a carico dei geni in esame;
in donne che desiderano assumere anticoncezionali orali (pillola), nella cui storia clinica personale e/o familiare ricorrano gli eventi di cui sopra. Il riscontro di una o più varianti di predisposizione a sviluppare trombosi, permetterà di impostare terapia antitrombotica preventiva, se necessaria, e di identificare precocemente i familiari portatori della/e medesima/e variante/i di predisposizione.
Identificare le lesioni del DNA all’origine delle malattie onco-ematologiche è necessario per individuare la terapia mirata più efficace e specifica per ogni singolo paziente: un traguardo un tempo impensabile, oggi facilitato da piattaforme di sequenziamento di nuova generazione del DNA (NGS), che consente la lettura multipla e parallela di singoli frammenti di DNA, passando in rassegna milioni di paia di basi in poche ore.
Grazie a questa tecnologia, le alterazioni spesso microscopiche del DNA, capaci di scatenare leucemie, linfomi e altri tumori, sono individuabili in breve tempo e con procedure decisamente semplificate rispetto al sequenziamento convenzionale. Il sequenziamento consente di individuare, non solo la lesione genetica responsabile dello scatenarsi della patologia ematologica, ma anche e soprattutto terapeuticamente, suggerisce quale può essere la specifica cura, avendo finalmente a disposizione dei farmaci mirati in grado di colpire selettivamente l’alterazione o il danno genetico. La possibilità di sequenziare le regioni genomiche implicate nella risposta ai farmaci permette non solo di identificare il farmaco più efficace per il singolo paziente, ma anche l’esatto dosaggio, la quantità del medicinale tollerata o che è opportuno che assuma: attraverso un semplice prelievo di sangue è possibile identificare variazioni individuali in geni che ricoprono un ruolo fondamentale nel metabolismo dei farmaci.
Nelle famiglie in cui siano presenti casi di emofilia è possibile sottoporre le femmine all’analisi di mutazione del gene del Fattore VIII e IX della coagulazione mediante sequenziamento automatico diretto, per stabilire se siano portatrici.
Emofilia
Emofilie A e B
Leucemia mieloide acuta
Generalità
Pannello geni indagati
Leucemia mieloide cronica
Mielofibrosi
Generalità
Calreticulina
JAK2
MPL
Trombofilia
Generalità
Il fattore V di Leiden
Il fattore II
MTHFR
GP IIb IIIa
PAI 1
Emocromatosi
L’emocromatosi ereditaria associata al gene HFE (Emocromatosi di tipo I, HFE-HCC) è una malattia ereditaria a trasmissione autosomica recessiva caratterizzata da un aumentato assorbimento di ferro a livello della mucosa gastrointestinale, con conseguente accumulo dello stesso a livello del fegato, della cute, del pancreas, del cuore, delle articolazioni e dei testicoli. Essa è la più comune malattia autosomica recessiva nella popolazione caucasica.
Dolori addominali, debolezza, letargia e perdita di peso sono i sintomi più precoci che, in assenza di un’adeguata terapia, possono svilupparsi negli uomini tra i 40 e i 60 anni, e nelle donne dopo la menopausa. Esiti temibili della malattia sono costituiti dalla cirrosi e dalla fibrosi epatica, insieme alle disfunzioni endocrine.
Il gene HFE è localizzato sul cromosoma 6 (6p21.3) e codifica per una proteina di 348 aa (precursore) molto simile alle proteine dell’HLA di classe I. La proteina matura è espressa sulla superficie cellulare come eterodimero con la β2-microglobulina.
La proteina HFE consiste di due domini extracellulari α1 ed α2 che interagiscono con il recettore della transferrina, da un dominio α3, immunoglobulin-like, che si lega alla β2-microglobulina, da un dominio transmembranario, ed uno citoplasmatico. La proteina HFE, legandosi al recettore 1 della transferrina, lo regolerebbe in modo negativo,riducendo il rilascio di ferro nel citoplasma cellulare e quindi l’uptake di ferro.
Almeno 28 distinte mutazioni sono state riportate nel gene HFE, ma solo due mutazioni rappresentano la maggior parte degli alleli in grado di causare la malattia.
La prima mutazione, Cys282Tyr (C282Y, 845 G>A), è la più comune mutazione responsabile di emocromatosi. Essa rimuove un residuo di cisteina altamente conservato impedendo la formazione di un ponte disolfuro intramolecolare che permette al dominio α3 di interagire con la β2-microglobulina, che normalmente svolge una funzione stabilizzatrice sulla proteina HFE. Ne deriva un intrappolamento della proteina all’ interno del reticolo endoplasmatico e dell’ apparato del Golgi, con ridotta espressione a livello della superficie cellulare.
La seconda mutazione, His63Asp (H63D, 187C>G), comporta invece una mancata formazione di un ponte salino intramolecolare nel dominio α2 che normalmente lega il recettore della transferrina, diminuendo la funzione della proteina HFE.
Una terza mutazione in HFE è una sostituzione A193T nell’esone 2 che comporta un cambio aminoacidico S65C. Essa è stata mostrata essere generalmente benigna, sebbene un genotipo C282Y/S65C potrebbe conferire un aumentato rischio di sviluppo di emocromatosi, contribuendo ad un fenotipo mite della malattia.
Circa il 60-90% degli individui di origine europea con HFE-HHC è omozigote per la mutazione C282Y, il 3-8% è eterozigote composto per le mutazioni C282Y ed H63D e l’1% è omozigote per H63D. Per quanto riguarda la omozigosi della mutazione H63D non ci sono evidenze che essa sia associata ad un fenotipo clinico di emocromatosi, in assenza di altre cause che possano determinare accumulo di ferro. Circa il 5% di soggetti con quadro clinico suggestivo di emocromatosi sono soltanto eterozigoti per la mutazione C282Y. Essi probabilmente possiedono un’altra mutazione rara in HFE o mutazioni in altri geni responsabili di accumulo di ferro. L’ incidenza degli omozigoti per C282Y nella popolazione europea è compresa tra 1:400, mentre è bassa negli afro-americani ed ancor di più tra gli asiatici.
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A novel MHC class I-like gene is mutated in patients with hereditary haemo- chromatosis.
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Emofilia
Emofilie A e B
L’emofilia è una malattia genetica caratterizzata da emorragie spontanee o sanguinamento prolungato a causa dell’assenza o della ridotta produzione dei fattori della coagulazione VIII (FVIII) o IX (FIX). L’incidenza annuale è stimata in 1/5.000 nati maschi e la prevalenza in 1/12.000. L’emofilia colpisce in particolare i maschi, anche se le femmine portatrici possono presentare forme più leggere della malattia. In genere le emorragie si presentano quando i neonati affetti cominciano a camminare. La gravità dei segni clinici dipende dall’entità del deficit del fattore della coagulazione. Se l’attività biologica del fattore della coagulazione è inferiore a 1%, l’emofilia è grave e si presenta con emorragie spontanee frequenti e sanguinamenti anomali, risultato di lesioni minori, o successivi a un intervento chirurgico (emofilia A e B grave). Se l’attività biologica del fattore della coagulazione è compresa tra 1% e 5%, l’emofilia è moderatamente grave con sanguinamenti anomali dovuti a lesioni minori o ad interventi chirurgici, anche se l’emorragia spontanea è rara (emofilia A e B moderatamente grave). Se l’attività biologica del fattore della coagulazione è compreso tra il 5% e il 40%, l’emofilia è lieve, con anomalo sanguinamento secondario a minime lesioni o ad interventi chirurgici (emofilia A e B leggera). Le emorragie si localizzano spesso attorno alle articolazioni (emartrosi) e nei muscoli (ematomi), anche se può essere coinvolto ogni sito dopo un trauma o una lesione. L’ematuria spontanea è abbastanza comune ed è un sintomo fortemente suggestivo della malattia.
Attualmente, la conoscenza del difetto molecolare alla base dell’emofilia rappresenta uno dei più importanti ausili nella gestione dei pazienti affetti da queste coagulopatie. L’emofilia viene trasmessa come carattere recessivo legato all’X e circa il 70% degli emofilici presenta una storia familiare positiva. La malattia è dovuta alle mutazioni del gene F8 (Xp28) che codifica per il fattore VIII della coagulazione, o del gene F9 (Xp27) che codifica per il fattore IX della coagulazione, coinvolti rispettivamente nelle emofilie tipo A e B.
Basi genetiche dell’emofilia A.
L’HA è trasmessa come carattere recessivo ed è causata da mutazioni nella sequenza del gene che codifica per il FVIII della coagulazione. Tale gene è localizzato all’estremità telomerica del braccio lungo del cromosoma X (Xq28), ha una lunghezza di 186 chilobasi (Kb) e comprende 26 esoni, trascritti in un RNA messaggero (mRNA ) di circa 9 Kb. La proteina matura è costituita da 2.332 aminoacidi divisi in 5 domains (A1, A2, B, A3, C1, C2).
Nel plasma, il FVIII circola in associazione al fattore di von Willebrand che ha funzione di carrier e di protezione dalla degradazione proteolitica. Solo da qualche anno è stata riconosciuta una mutazione che ricorre nel 20-25% di tutte le HA e soprattutto è presente nel 40-50% dei pazienti affetti da HA grave. Si tratta della mutazione nota comeinversione del gene del FVIII. Questo risulta interrotto per la ricombinazione intracromosomica tra una sequenza all’interno dell’introne 22 (F8A) ed una sequenza ad essa omologa (int22h) presente, in due o più copie, a circa 4-500 Kb dall’estremità 5′ del gene: sono identiche tra loro per più del 99% della sequenza.
I casi che non presentano questa mutazione sono invece prodotti da un insieme assai eterogeneo di alterazioni genetiche. Le mutazioni in questo gruppo di pazienti (circa l’80% di tutti i pazienti
emofilici) sono rappresentate da ampie delezioni, grosse inserzioni, piccole delezioni, mutazioni puntiformi. Attualmente sono state identificate circa 500 differenti mutazioni alla base dell’emofilia A riportate sul database internazionale per i difetti genetici dell’HA (http://europium.csc.mrc.ac.uk).
Basi genetiche dell’emofilia B.
L’HB è causata da alterazioni nella sequenza del gene che codifica per il FIX della coagulazione, situato sul cromosoma X in una posizione più vicina al centromero rispetto al gene per il FVIII (Xq27). Ha una dimensione di 33,5 Kb e la trascrizione dei suoi 8 esoni produce un mRNA di 1,4 Kb. La proteina matura è costituita da 415 aminoacidi divisi in 6 domini. Sono note numerose mutazioni a carico del FIX, ma non esiste una mutazione prevalente con caratteristiche e frequenza simili. all’inversione del FVIII per l’HA. Le grosse delezioni del FIX sono relativamente rare e interessano solo 1-3% di tutti i casi di HB. Più del 95% delle mutazioni riguardano singoli nucleotidi o piccole delezioni/sostituzioni distribuite lungo tutto il gene e riportate sul database internazionale per i difetti genetici dell’HB (http://umds.ac.uk./molgen/haemBdatabase).
Indagini di Laboratorio
La diagnosi si basa sui test della coagulazione, che rivelano un allungamento dei tempi della coagulazione del sangue. Il test di laboratorio più utilizzato è il tempo di tromboplastina parziale (PTT): nelle persone affette da emofilia il tempo di tromboplastina parziale risulta più lungo del normale. Altri valori, come il tempo di emorragia, il tempo di protrombina e la conta delle piastrine, sono normali. Il tipo e la gravità dell’emofilia sono definiti dai dosaggi specifici dei livelli dei fattori VIII e IX. La diagnosi prenatale nelle coppie a rischio è possibile attraverso analisi molecolare sui villi coriali. Le analisi dei fattori della coagulazione possono essere effettuate sul sangue venoso e sul sangue del cordone ombelicale. Nelle famiglie in cui siano presenti casi di emofilia è possibile sottoporre le femmine all’analisi di mutazione del gene del Fattore VIII e IX della coagulazione mediante sequenziamento automatico diretto, per stabilire se siano portatrici. I sintomi delle due malattie sono praticamente identici, e solo tramite gli esami di laboratorio, o conoscendo la storia familiare, il medico può differenziare questi due tipi di emofilia. Questa differenza è però importantissima ai fini della terapia, perché determinerà quale dei fattori bisognerà eventualmente somministrare alla persona affetta. Se non trattata, l’emofilia grave è di solito fatale durante l’infanzia o l’adolescenza. Un trattamento inappropriato o inadeguato delle emartrosi e degli ematomi ricorrenti può causare deficit motori che si associano a disabilità grave con rigidità, deformazione delle articolazioni e paralisi. Tuttavia, gli attuali approcci terapeutici consentono di prevenire queste complicazioni e la prognosi è favorevole: quanto prima viene somministrata la terapia sostitutiva e tanto più appropriato è il trattamento al quadro clinico del paziente, tanto migliore è la prognosi. La conoscenza della genetica molecolare permette la gestione più completa di queste coagulopatie consentendo di rispondere in modo adeguato alle esigenze dei pazienti e delle loro famiglie su problematiche cruciali per la salute dei singoli.
Sitografia
https://www.osservatoriomalattierare.it/emofilie
http://www.bloodtransfusion.it/articoli/000010/it/000236.pdf
Leucemia Mieloide Acuta
La Leucemia Mieloide Acuta (AML) è la seconda leucemia in termini di frequenza dopo la Leucemia Linfatica Cronica nei Paesi occidentali. E’ una malattia che si presenta prevalentemente dopo i 60 anni e con un quadro clinico molto variabile: dalla totale assenza di sintomi a manifestazioni cliniche rilevanti.La AML è una malattia molto eterogenea, sia dal punto di vista clinico che dal punto di vista del profilo biomolecolare. Come in molte altre patologie non sono chiare le cause primarie che responsabili di una AML e in questi casi la malattia viene definita come AML primaria.Esistono però dei fattori di rischio conosciuti, come l’esposizione a radiazioni ionizzanti, agenti chimici tossici o la presenza di rari disordini genetici predisponenti, che se presenti nella storia clinica del paziente fanno classificare la malattia come AML secondaria.
Dal punto di vista molecolare la malattia è molto complessa e caratterizzata da numerosi danni genetici che cooperano per lo sviluppo della patologia. Le più recenti ricerche hanno evidenziato come alcuni di questi sembrino più importanti di altri nel dare origine alla malattia. In generale i danni genetici possono essere divisi in due tipi: quelli dovute a traslocazioni cromosomiche, quindi spostamenti di sezioni più o meno estese di cromosoma, e quelli dovuti a mutazione di un singolo gene. Nonostante tutto, non è stato ancora identificato un unico fattore come responsabile diretto della AML.
Classificare e valutare una AML si basa su indagini multimodali come morfologia, citochimica, immunofenotipizzazione e test genetici.Questi ultimi comprendono il cariotipo convenzionale e l’analisi molecolare (FISH e PCR) che risultano più pertinenti per quanto riguarda la biologia, la classificazione, la prognosi e, in definitiva, la terapia della AML(1).
Nel 2001 sono state classificate e selezionate quattro anomalie citogenetiche che definiscono specifiche entità diagnostiche. Le LAM che presentano una t(8;21), t(15;17) o un’inv(16) hanno prognosi favorevole, mentre traslocazioni del cromosoma 11q23, t(9;22) e FLT3 tendono ad essere più aggressive con prognosi intermedia o sfavorevole.(2) In effetti oltre 150 lesioni ricorrenti, a volte prognosticamente rilevanti, sono state descritte nelle AML, ma la maggior parte non è stata, attualmente, inserita in schemi di classificazione. L’OMS nel 2008 ha proposto di introdurre tre nuove anomalie cromosomiche nella nuova classificazione – t(6;9), t(1;22) e inv(3)(1) .
Pannello geni indagati
Geni in dettaglio
11q23
Alterazioni strutturali dell’11q23 sono rilevabili in circa nel 5-6% delle LAM, nel particolare presenti nel 60% delle leucemie della prima infanzia (< 1 anno) (9,10) e nell’85% delle leucemie secondarie a trattamento con inibitori della topoisomerasi II (11,12). Il gene situato sulla regione 11q23, l’MLL, ha omologia con il gene Trithorax codificante per un fattore di trascrizione coinvolto nel normale sviluppo della Drosophila, regolando i processi differenziativi (13). Le traslocazioni dell’11q23 possono avere varie controparti; le più frequentemente osservate sono la t(4;11) (q21;q23), la t(9;11) (p22;q23) e la t(11;19) (q23;p13), bisogna sottolineare che i geni situati sui cromosomi 4 (AF4), 9 (AF9) e 19 (ENL) hanno sequenze omologhe e si presuppone costituiscano una nuova classe di fattori di trascrizione (14). Nelle LAM le traslocazioni più frequenti sono la t(9;11) e la t(11;19), che caratterizzano forme con morfologia M4-M5, iperleucocitosi, alterazioni coagulative, frequente localizzazione del sistema nervoso centrale e prognosi sfavorevole.
FLT3
L’impatto clinico delle mutazioni NPM1 è influenzato dallo stato mutazionale del gene FLT3. Infatti, l’analisi della mutazione NPM1 ha un valore scarso o nullo in assenza di test FLT3 e le due devono sempre essere eseguite insieme. Pertanto, i laboratori clinici che stabiliscono un dosaggio NPM1 potrebbero voler tentare di “multiplexare” questo test con un test FLT3 ITD e TKD. Numerosi studi hanno dimostrato che i pazienti che non hanno una mutazione in NPM1 e in possesso di una in FLT3 ITD o TKD ha una prognosi peggiore rispetto ai pazienti che possiedono una mutazione NPM1 senza un FLT3 ITD o TKD concomitante (17,19,20). La sopravvivenza globale di questi ultimi pazienti si avvicina a quella dei pazienti con AML che presentano cariotipi correlati ad una prognosi favorevole, come t (8; 21), t (15; 17) o inv (16) e per chi il trapianto di midollo osseo può non avere benefici di sopravvivenza. Infatti, i pazienti con AML con mutazione in NPM1 e FLT3 wild-type non possono beneficiare del trapianto di midollo osseo. È stato proposto che la combinazione dello stato di queste due mutazioni consenta la stratificazione in tre gruppi prognostici(20,21). Di conseguenza le prognosi possono essere favorevoli (FLT3—/NPM1+), intermedi (FLT3–/NPM1– o FLT3+/ NPM1+) e sfavorevoli ( FLT3+/ NPM1–).
Inv (16)
L’Inv (16), 15% delle LAM, dà luogo ad un riarrangiamento del gene CBFb, situato sul cromosoma 16, e del gene MYH11, anch’esso situato sul cromosoma 16, che codifica per la catena pesante della miosina della muscolatura liscia, con la formazione del gene chimerico CBFb/MYH11. Ad oggi non si conosce il ruolo svolto dalla proteina chimerica nel processo di leucogenesi. Si può presupporre che CBFb/MYH11 conservi la sua capacità di interagire con AML1, ma che la sua trasformazione porti ad un’alterata attività del complesso trascrizionale sui geni normalmente regolati da AML1. La inv(16) si associa ad una prognosi altamente favorevole nelle LAM dell’adulto.
NPM1
Ad oggi, il gene mutato più frequentemente identificato in AML è la nucleofosmina (NPM1). Le mutazioni in questo gene, che sono tipicamente piccole inserzioni (di solito di 4 bp, a volte fino a 11 bp) nella regione codificante dell’esone 12 terminale, si verificano in circa il 20 – 25% di tutte le AML(16). Il prodotto del gene nucleofosmina è una proteina da 37-kDa che si muove attivamente tra nucleolo, nucleoplasma e citoplasma; tuttavia, come suggerisce il nome, si trova prevalentemente nel nucleolo. Inizialmente si sospettava che la proteina nucleofosmina fosse coinvolta nella promozione della crescita cellulare, in parte attraverso la sua mediazione della biogenesi ribosomiale. Coerente con questa ipotesi, NPM1 è sovraespresso in una varietà di tumori umani. Gli studi hanno dimostrato che NPM1 potrebbe anche promuovere l’inibizione della crescita mediante le sue interazioni funzionali con i soppressori tumorali p14ARF e p53 (17). Le mutazioni in NPM1 trovate in AML alterano i residui di triptofano necessari per una corretta localizzazione nucleolare e creano un presunto segnale di esportazione nucleare al terminale C della proteina. Di conseguenza, la proteina nucleofosmina mutante è prevalentemente localizzata nel citoplasma e, attraverso la dimerizzazione, causa anche la mislocalizzazione della proteina wild type. Data l’alta frequenza delle mutazioni NPM1 nelle AML, sono stati eseguiti più studi che valutano la relazione tra queste mutazioni e la sopravvivenza. Uno studio ha mostrato un debole, ma statisticamente significativo aumento della sopravvivenza libera da malattia e globale in pazienti con una AML che possedeva una mutazione NPM1(18).
T(8;21)
t(8;21) (q22;q22) è una delle più frequenti alterazioni molecolari delle LAM. Essa coinvolge il gene AML1 presente sul cromosoma 21q22 ed il gene ETO, situato sul cromosoma 8q22 dando origine al gene chimerico AML1/ETO. Il gene. AML1 è un membro di una famiglia di fattori di trascrizione e codifica per la proteina che si lega a specifiche sequenze del DNA del fattore di trascrizione AML1/CBFb; la sua capacità di legarsi è mediata dall’area di omologia con il gene RUNT. Studi sull’attività di AML1 hanno dimostrato che AML1 lega il DNA come un complesso eterodimerico formato dalla subunità AML1 e da una seconda subunità CBFb, che non lega ma incrementa l’affinità del legame DNA-AML1(3). Questo eterodimero regola l’espressione di numerosi altri geni specifici, quali CD13, il gene per la mieloperossidasi, il gene del fattore stimolante la crescita delle colonie monocito-macrofagiche (GM-CSF), geni specifici della linea T (recettore per l’antigene delle cellule T, IL-3). La leucemogenesi, in questo caso, potrebbe essere mediata da un’alterata interazione tra il prodotto chimerico e geni normalmente regolati da AML1.
L’analisi delle sequenze di ETO indica che codifichi per un fattore trascrizionale, ma attualmente il suo ruolo non è conosciuto. La presenza della t(8;21) nella LAM dell’adulto si associa ad una prognosi favorevole sia per quanto riguarda la possibilità di ottenere una RC (risposta citogenetica) sia per quanto riguarda la durata della RC e la possibilità di “guarigione”, tuttavia questa caratteristica favorevole non è confermata nei pazienti pediatrici.
T(9;22)
La t(9;22) può essere presente anche in rari casi di LAM (15) e genericamente viene considerato un fenotipo molecolare a cattiva prognosi, anche se per la rarità del riscontro e per la mancanza di studi sistematici non è ancora ben definito il reale peso prognostico di questa alterazione nelle LAM.
T(15;17)
La t(15;17) (q24;q21) è il marker molecolare della leucemia promielocitica e determina il riarrangiamento del gene situato sul cromosoma 17q21 (RARα) che codifica per il recettore α dell’acido retinoico con il gene PML, situato sul cromosoma 15q24 (4, 5). Il gene RARα codifica per un fattore trascrizionale che lega sequenze specifiche del DNA in elementi responsivi all’acido retinoico. La sua attività è di tipo “promotore”. La traslocazione genera due geni di fusione: PML/RARα ed il suo reciproco RARα/PML, ma sembra che il fattore critico implicato nel processo di leucogenesi sia il prodotto di PML/RARα (4, 5). Il punto di rottura sul cromosoma 17 è costante, mentre sul cromosoma 15 vi sono tre possibili punti di rottura (BCR1, BCR2, BCR3). La variabilità strutturale nei diversi prodotti chimerici, non impedisce la capacità di legare i retinoidi e di interagire con elementi responsivi all’acido retinoico.
Non è del tutto chiaro come il PML/RARα intervenga nel processo di leucogenesi; probabilmente il processo è mediato attraverso l’interazione con altri geni che vengono normalmente regolati da RARα. Si è dimostrato che il prodotto della traslocazione inibisce la differenziazione delle cellule mieloidi e, in assenza di acido retinoico, ne promuove la sopravvivenza (6). Aumentando la concentrazione di acido retinoico invece, il prodotto chimerico induce una “differenziazione terminale” delle cellule leucemiche (7). Quei rari casi di LAM, non rispondenti all’acido retinoico, in cui il riarrangiamento avviene tra RARα ed il gene PLZF situato sul cromosoma 11q23: t(11;17) confermano il ruolo svolto da RARα (8). La Leucemia Promielocitica presenta caratteristiche citomorfologiche e cliniche (leucopenia, assenza di organomegalia, sindrome emorragica in cui la coagulopatia svolge un ruolo determinante) che la rendono una entità specifica nell’ambito delle LAM. Dal punto di vista terapeutico presenta una sensibilità unica al trattamento con acido all-trans-retinoico (ATRA), che è in grado di indurre una RC nella quasi totalità dei casi.
Il pannello completo
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t(15;17) PML/RARA (bcr1-2-3);
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t(9;22) BCR/ABL (p190; p210; p230);
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t(8;21) RUNX1/RUNX1T1;
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Inv(16) CBFb/MYH11;
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FLT3-ITD/TKD;
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Mutazione NPM1;
In accordo protocollo del Network LabNet AML GIMEMA
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Leucemia mieloide cronica
La leucemia mieloide cronica (LMC) è un disordine mieloproliferativo cronico che colpisce la cellula staminale emopoietica (Tura S et al, 1986; Melo JV et al, 2003; Cortes JE et al, 1996). La LMC è caratterizzata dalla presenza, nel sangue periferico, da una leucocitosi di grado variabile, con la presenza di progenitori mieloidi immaturi. Possono anche essere presenti piastrinosi, basofilia ed eosinofilia; la percentuale di questi elementi ha un valore prognostico. A livello midollare è presente una spiccata iperplasia della serie mieloide, mentre all’esame obiettivo è presente, in circa il 30% dei casi, un grado variabile di splenomegalia.
Prevale nel sesso maschile (rapporto 1,7: 1), tra la quinta e la sesta decade di vita; l’incidenza della LMC è di 1-2 nuovi casi/100.000/anno, ed è responsabile del 15-20% delle leucemie nell’adulto (Tura S et al, 1986; Melo JV et al, 2003; Cortes JE et al, 1996).
La LMC esordisce con una fase cronica, per lo più asintomatica, durante la quale la marcata proliferazione delle cellule mieloidi si accompagna al mantenimento di una capacità maturativa pressoché intatta. Dopo un tempo variabile, da pochi mesi a molti anni (in media 3-4 anni), la fase cronica si trasforma, inevitabilmente, in una fase acuta, denominata crisi blastica, in cui si manifesta un blocco maturativo tipico delle leucemie acute. Frequente è la presenza di una fase intermedia, denominata fase accelerata, che precede la fase blastica mieloide e si caratterizza per la progressiva perdita della capacità maturativa delle cellule midollari, con un incremento dei blasti, dei promielociti e dei basofili nel sangue midollare e talora comparsa di anemia e piastrinopenia.
Nel 90-95% dei soggetti affetti da LMC, nelle mitosi delle cellule midollari, fin dal 1960 è stata dimostrata l’esistenza di un riarrangiamento cromosomico che da origine al cromosoma Philadelphia (Ph), derivato dalla traslocazione reciproca bilanciata tra le braccia lunghe dei cromosomi 9 (banda q34) e 22 (banda q11) (Nowell PC et al, 1960). Nei primi anni ’80 è stato possibile identificare i due geni coinvolti nella traslocazione: il gene ABL sul cromosoma 9 e il gene BCR sul cromosoma 22 (Groffen J et al, 1984). ABL è un proto-oncogene cellulare, omologo umano dell’oncogene virale v-ABL, che codifica per una proteina dotata di un dominio tirosin-chinasico, espressa in tutte le cellule e capace di fosforilare diversi substrati proteici (Konopka JB et al, 1984). E’ coinvolta nella trasduzione del segnale mitogenico: in seguito al riarrangiamento cromosomico, il gene ABL viene traslocato dal cromosoma 9 al 22, dove si inserisce all’interno del gene BCR. I due geni vanno a formare un nuovo gene di fusione, BCR-ABL, trascritto in mRNA e tradotto in una nuova proteina di 210 kd, denominata P210, dotata di attività tirosin-chinasica costitutiva (Konopka JB et al, 1984). In casi meno frequenti di LMC, si osserva un trascritto che da origine ad una proteina di 190 Kd (P190) e che deriva da un diverso tipo di riarrangiamento tra BCR e ABL tipico delle LAL (leucemie linfoblastiche acute) Ph+, (Clark SS et al, 1987). Un altro raro ibrido è la P230, associata ad una LMC caratterizzata da iperplasia granulocitaria e, in genere, un andamento clinico più indolente (Pane F et al, 1996).
Diagnosi
La diagnosi di LMC Ph+ deve essere confermata dal riscontro della traslocazione t(9;22) in citogenetica, con metodi convenzionali o ibridazione in situ fluorescente (FISH), e del trascritto ibrido BCR-ABL in biologia molecolare, con tecniche di amplificazione genica qualitativa (RT-PCR) e quantitativa (RQ-PCR), su sangue periferico e/o midollare. Talora alla diagnosi sono presenti anomalie citogenetiche addizionali al cromosoma Philadelphia. Tra queste ultime sono frequenti la trisomia dei cromosomi 8 e 19 (+8, +19) la duplicazione del cromosoma Ph e l’isocromosoma 17q. Queste anomalie, che costituiscono la “major route” di evoluzione clonale, sono associate ad un outcome meno favorevole (Fabarius A et al, 2015).
Terapia
Negli ultimi decenni la terapia della LMC ha subito almeno tre momenti di grande trasformazione, dovute prima all’introduzione del trapianto di midollo allogenico, successivamente dell’interferone ricombinante e soprattutto, negli anni più recenti, dell’Imatinib, inibitore della tirosin-chinasi BCR/ABL, che è considerato anche il capostipite dei farmaci della cosiddetta “target therapy” (Cortes JE et al, 1996). La terapia con Imatinib, e con gli altri farmaci inibitori delle tirosin-chinasi (TKI) di seconda e terza generazione, che sono stati successivamente sviluppati, ha permesso di cambiare radicalmente la prognosi dei pazienti con LMC e di portare le aspettative di vita di questi pazienti molto vicine a quelle della popolazione di controllo di pari età (Deininger M et al, 2009).
Nonostante l’indubbia efficacia del’Imatinib, una percentuale significativa dei pazienti, valutabile complessivamente attorno al 30-40%, si dimostra resistente o intollerante. La resistenza alla terapia con imatinib è definita “front-line”, in assenza di risposta ematologica o citogenetica soddisfacente in un determinato lasso di tempo, oppure acquisita, quando compare una resistenza nel corso della terapia con perdita di una risposta precedentemente acquisita (O’Hare T EC et al, 2007).
La percentuale di casi resistenti all’imatinib aumenta in maniera drastica nella fase accelerata e ancora più nella fase blastica (Radich JP, 2007). È molto elevata anche la percentuale di coloro che inizialmente rispondono, ma che poi recidivano. I meccanismi molecolari che sottendono la resistenza all’Imatinib, sono riconducibili a due categorie principali: quelli in cui BCR-ABL mantiene un’attività tirosin-chinasica residua, tra le cui cause si annoverano lemutazioni puntiformi, l’amplificazione genica del recettore e l’insufficiente concentrazione di Imatinib a livello cellulare, e quelli in cui BCR-ABL è completamente inibito da Imatinib, ma la proliferazione clonale è sostenuta dall’attivazione di altre vie molecolari (Deininger MW, La Rosee P, 2010).
Le mutazioni puntiformi sono certamente tra i meccanismi più noti e più studiati. Esse possono colpire diversi domini funzionali di BCR-ABL e si presentano in circa il 30-50% dei pazienti resistenti ad Imatinib. Sono state identificate più di 100 mutazioni puntiformi, ma l’85% delle mutazioni coinvolge sette sostituzioni aminoacidiche (M244V, G250 E, Y253F7H, E255K/V, T513I, M251T e F359V) (Soverini S et al, 2006).
Nilotinib, Dasatinib e Bosutinib (i cosiddetti TKI di seconda generazione, o 2G-TKI) sono stati inizialmente testati come trattamento di seconda linea in pazienti resistenti o intolleranti ad Imatinib, e si sono dimostrati efficaci nell’indurre una CCyR (Risposta Citogenetica Completa) in circa il 50% di questi pazienti. La maggior parte delle mutazioni che compaiono in corso di trattamento con Imatinib sono sensibili ai 2G-TKI, con l’eccezione importante della T315I. Il Ponatinib, considerato un TKI di terza generazione, è il primo TKI attivo nei pazienti LMC che presentano la mutazione T315I (Fava C et al, 2015).
Una buona gestione dei pazienti affetti da LMC richiede un attento follow-up, che si basa sul monitoraggio clinico e sull’analisi molecolare e citogenetica. Un’attenta vigilanza del paziente fa sì che i fallimenti terapeutici e le risposte non ottimali vengano identificati precocemente ed il medico abbia modo di intervenire in maniera efficace sul decorso della malattia. Il fallimento terapeutico infatti indica che la terapia in corso non è più appropriata per il paziente ed è necessario modificarla (Jabbour E et al, 2009).
Quando si esaminano le risposte alla terapia con TKI è opportuno tenere presenti due aspetti fondamentali: il grado della risposta stessa ed il tempo necessario per ottenerla. In particolare, mentre già da tempo era nota l’importanza clinica del raggiungimento precoce della CCyR e della MMR (Malattia Minima Residua) a 12 mesi (Baccarani M et al, 2009), più recentemente è emersa l’importanza prognostica della risposta citogenetica e molecolare a 3 mesi. I pazienti che a 3 mesi ottengono un trascritto BCR-ABL/ABL ≤ 10% e una risposta citogenetica maggiore, hanno ottime probabilità di PFS (Progression free survival) e OS (overall survival)(Hanfstein B et al, 2012; Marin D et al, 2012).
L’indicazione a cambiare terapia riguarda tutti i pazienti a cui si adatta la definizione di fallimento terapeutico secondo le raccomandazioni dell’European LeukemiaNet (ELN), ed in questo caso è bene farlo il prima possibile perché il successo terapeutico è maggiore quando i pazienti vengono trattati prima della perdita della remissione ematologica maggiore (Fava C et al, 2009).
La valutazione della risposta citogenetica mantiene la sua importanza in tutti i trial controllati, in particolare per la valutazione della risposta fino all’ottenimento della MMR; le raccomandazioni più recenti prevedono l’analisi citogenetica alla diagnosi e a 3 e 6 mesi, poi ogni 6 mesi fino raggiungimento della CCyR; successivamente può essere utilizzata la valutazione del trascritto su sangue periferico, purché si disponga di un monitoraggio molecolare adeguato (Baccarani M et al, 2013; Hochhaus A, Saussele S et al, 2017).
Il problema dell’eradicazione completa del clone leucemico e quindi della guarigione definitiva è un problema molto attuale ed ancora completamente aperto. Dopo uno studio pilota su 12 pazienti, un lavoro del gruppo cooperativo francese ha infatti riportato che il 40% circa di un gruppo di pazienti in terapia con Imatinib che avevano raggiunto la remissione molecolare completa (CMR, definita in questo caso come assenza di trascritto ibrido BCR-ABL amplificabile mediante una PCR qualitativa con un livello di sensibilità di almeno 4 logaritmi), mantenuta ininterrottamente per almeno due anni, è stato in grado di sospendere la terapia senza perdere la risposta molecolare (Mahon FX et al, 2010; Etienne G et al, 2017).
Per la sospensione della terapia, la durata della remissione molecolare profonda è stata definita come persistenza di MR4 o MR4,5 per uno o due anni; una fluttuazione nei valori di PCR è rilevabile in circa il 30% dei pazienti, e la presenza di tali fluttuazioni prima o dopo la sospensione non implica necessariamente una recidiva molecolare della malattia. Diversi studi stanno valutando la possibilità di sospendere la terapia con TKI di seconda generazione; in generale, questi studi dimostrano che la sospensione in questi pazienti è fattibile dopo un tempo più limitato di terapia. La percentuale di pazienti che rimangono in TFR a 12 mesi varia: 61,4% (STOP-2GTKI, Dasatinib e Nilotinib prima e seconda linea); 48% (DADI, Dasatinib prima e seconda linea), 58% (ENESTop, Nilotinib dopo Imatinib)
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MIELOFIBROSI
Le Neoplasie Mieloproliferative (MPN) costituiscono una delle cinque categorie delle neoplasie mieloidi secondo la classificazione dell’organizzazione mondiale della sanità (WHO). Al loro interno vi è un sottogruppo costituito dalle MPN Philadelphia-negative, che include la Policitemia Vera (PV), la Trombocitemia Essenziale (TE), la Mielofibrosi Primaria (PMF) e la Mielofibrosi Primaria in fase prefibrotica. Tali disordini sono patologie neoplastiche, che colpiscono le cellule staminali emopoietiche. Si caratterizzano per una emopoiesi clonale, in quanto gli elementi delle tre serie maturative midollari (granulocitaria, eritrocitaria e megacariocitaria) derivano tutti da una stessa cellula progenitrice emopoietica, che ha acquisito una o più mutazioni genetiche che le conferiscono un vantaggio proliferativo, con un eccesso di produzione di elementi cellulari appartenenti a una o più linee fra le tre sopracitate.
In particolare, nella PV, la proliferazione eritroide è predominante e determina un aumento numerico dei globuli rossi nel sangue periferico; nel 50% dei pazienti può essere documentata anche la proliferazione piastrinopoietica e granulocitopoietica, causa di incremento rispettivamente delle piastrine e dei leucociti. La TE è, invece, caratterizzata da una proliferazione persistente e incontrollata della serie megacariocitaria, la linea midollare che produce le piastrine. Nella PMF si osserva l’incremento prevalente della serie mieloide e megacariocitaria; nella fase conclamata della malattia, tale proliferazione si associa a fibrosi midollare reattiva e a emopoiesi extramidollare, a carico principalmente di milza e fegato.
Si tratta di patologie rare, che possono colpire ogni fascia di età, ma con incidenza crescente. L’incidenza in Europa è stimata pari a 1.8 casi/100.000 persone per anno. In dettaglio, l’incidenza della Policitemia Vera varia fra 0.7 e 2.6 casi/100.000 abitanti per anno, con età mediana alla diagnosi di 60 anni e predilezione per il sesso maschile; l’incidenza della Trombocitemia Essenziale varia fra 0.6 e 2.5 casi/100.000 abitanti per anno, colpisce generalmente pazienti di età superiore ai 50 anni, ma presenta un picco di incidenza fra le giovani donne, intorno ai 30 anni; l’incidenza della Mielofibrosi Primaria varia fra 0.25 e 1.5 casi/100.000 abitanti per anno, anch’essa con frequenza crescente con l’avanzare dell’età, senza apparenti differenze di sesso.
Le mutazioni somatiche specifiche per tali patologie, JAK2, MPL e CALR, si comportano come “driver founding mutations”, in quanto determinano l’acquisizione di un vantaggio selettivo in una cellula con capacità di autorinnovamento, portando così alla formazione di un clone mutato; questo non implica necessariamente che le tre suddette mutazioni costituiscano il primo evento genetico somatico, come testimoniato da alcuni recenti studi, in cui mutazioni a carico di altri geni (ad esempio il gene TET2) possono precedere l’acquisizione della mutazione di JAK2, con ripercussioni anche sul piano biologico e clinico.
Degno di nota, tuttavia, il fatto che, nonostante i risultati ottenuti negli ultimi anni, rimanga una fetta non trascurabile di pazienti per i quali non disponiamo di un marcatore molecolare noto (i cosiddetti pazienti “tripli negativi”); è proprio su questa fascia di pazienti che si stanno concentrando gli sforzi volti a colmare tale lacuna.
Circa il 7% dei pazienti con neoplasia mieloproliferativa riferisce di avere un parente affetto da un’altra neoplasia mieloproliferativa. Anche nei pazienti con familiarità le mutazioni dei geni JAK2, CALR o MPL risultano mutazioni somatiche acquisite a livello del sistema emopoietico; non vi è quindi evidenza che vi sia una trasmissione ereditaria delle mutazioni dei geni JAK2, CALR o MPL. Si ipotizza che possa esistere una predisposizione ereditaria ad acquisire le suddette mutazioni. L’andamento clinico delle forme familiari è simile a quello delle forme sporadiche.
Calreticulina
Grazie a tecniche di next generation sequencing, è stata rilevata la presenza di mutazioni a carico del gene CALR (codificante per la Calreticulina) nella suddetta popolazione di pazienti. La Calreticulina è una proteina altamente conservata dal punto di vista evolutivo, che assolve a più di una funzione nelle cellule eucariote: presenta un dominio di legame per il calcio (regione C-terminale), ricco di aminoacidi carichi negativamente, e grazie ad esso partecipa alla regolazione della concentrazione del calcio intracellulare; si localizza anche nel nucleo, suggerendo così un suo possibile ruolo nella regolazione della trascrizione genica. Agisce, infine, come regolatore della struttura tridimensionale delle proteine nascenti, cooperando con la Calnexina (ciclo Calreticolina/Calnexina). Tutte le mutazioni di CALR, identificate nei pazienti con MPN, si concentrano nell’esone 9 e si caratterizzano per essere inserzioni o delezioni, che comportano uno slittamento della cornice di lettura di un singolo paio di basi. Nonostante se ne conoscano più di 50 sottotipi differenti, circa l’80% dei casi è costituito dalla mutazione di tipo 1 (delezione di 52 paia di basi) e dalla mutazione di tipo 2 (inserzione di 5 paia di basi). L’effetto complessivo di tutte queste mutazioni è la generazione di una differente regione C-terminale, ricca in aminoacidi neutri e carichi positivamente; vi è, inoltre, la perdita di una porzione proteica che agisce da segnale per la localizzazione a livello del reticolo endoplasmatico (sequenza KDEL). Studi funzionali suggeriscono che, in maniera ancora non del tutto delineata, anche le mutazioni di CALR possano agire attraverso la via di segnalazione JAK-STAT.
Le mutazioni di CALR si sono rivelate essere per la quasi totalità mutualmente esclusive con quelle a carico di JAK2 e MPL – solo rarissimi casi sono stati fino ad ora riportati di pazienti che presentano una doppia mutazione a carico di JAK2 e CALR.
JAK2
Il primo traguardo nel percorso di conoscenza delle basi genetiche delle neoplasie mieloproliferative è stato raggiunto nel 2005 con l’identificazione di una mutazione puntiforme (singola sostituzione nucleotidica G>T al nucleotide 1849, con conseguente sostituzione di un residuo di valina con uno di fenilalanina in posizione 617) nell’esone 14 del gene JAK2, codificante per una tirosinchinasi (Janus Kinase 2) coinvolta nella via di segnalazione intracellulare JAK-STAT.
Esistono 4 proteine JAK: Jak1, Jak2, Tyc2, espresse ubiquitariamente, e Jak3 espressa solo nelle cellule mieloidi e linfoidi. La proteine JAK2 è composta da sette domini: da JH1 a JH7. JH1 è la regione ad attività chinasica, cioè quella deputata a promuove l’attivazione delle successive chinasi nel processo di trasduzione del segnale. Diversamente, JH2 è un dominio pseudo-chinasico con attività autoinibitoria sul dominio JH1, cioè in grado di inibire l’attività di JH1 qualora fisiologicamente necessario.
La mutazione di JAK2 è stata scoperta studiando un’anomalia cromosomica ricorrente del cromosoma 9: la perdita di eterozigosi1 per le braccia corte (p) del cromosoma 9 (“loss of heterozigosity”, LOH), detta 9pLOH. La 9pLOH rappresenta l’anomalia cromosomica più frequente nei pazienti affetti da policitemia vera (circa un terzo dei casi) ed è presente in alcuni soggetti affetti da trombocitemia essenziale. Utilizzando un sistema di mappaggio con microsatelliti, è stata identificata una regione genomica minima comune a tutti i pazienti con 9pLOH. Tale regione contiene il gene JAK2. Il sequenziamento della regione codificante di JAK2 in pazienti con 9pLOH ha consentito di individuare una transversione G-T con sostituzione di una valina con fenilalanina in posizione 617 (V1617F). I pazienti con 9pLOH sono risultati omozigoti per la mutazione JAK2 V617F, mentre i pazienti senza 9pLOH sono risultati eterozigoti o privi della mutazione. La mutazione V617F JAK2 coinvolge una porzione del dominio pseudochinasico JH2 di JAK2, e quindi determina un aumento dell’attività di JAK2 con eccessiva trasduzione del segnale che a sua volta è responsabile della malattia mieloproliferativa.
Tale mutazione, JAK2 V617F, è presente nella quasi totalità dei pazienti affetti da Policitemia Vera (95%) e in una proporzione significativa di pazienti affetti da Trombocitemia Essenziale (55%) e Mielofibrosi Primaria (65%). Nella restante, seppur piccola, percentuale di pazienti affetti da Policitemia Vera è possibile trovare mutazioni del gene JAK2 diverse dalla V617F, ma con analogo significato funzionale in termini di attivazione della proteina mutata; tali mutazioni si concentrano nell’esone 12 e dal punto di vista genetico si caratterizzano per essere inserzioni o delezioni. Dal punto di vista clinico i pazienti con mutazione a carico dell’esone 12 del gene JAK2 presentano più spesso un’eritrocitosi isolata, ma non sembra che abbiano una prognosi dissimile dai pazienti portatori della classica mutazione V617F.
MPL
Poco dopo la scoperta delle mutazioni a carico del gene JAK2 sono state identificate ulteriori mutazioni somatiche a carico del gene MPL, che codifica per il recettore della trombopoietina, coinvolto nella medesima via di segnalazione intracellulare mediata da JAK-STAT. Dal punto di vista funzionale si tratta di mutazioni che conferiscono un guadagno funzionale alla proteina mutata, che si presenta, pertanto, costituzionalmente attivata. Le mutazioni del gene MPL che si riscontrano nelle MPN si concentrano nell’esone 10, coinvolgendo in maniera precipua il codone W515 (MPL W515L e MPL W515K), e sono presenti in circa il 4-5% dei pazienti con Trombocitemia Essenziale e nel 7-10% dei pazienti con Mielofibrosi.
La mutazione MPL S505N, invece, si riscontra sia in casi sporadici di neoplasia mieloproliferativa, come mutazione somatica, sia in casi di Trombocitemia Ereditaria, come mutazione germline.
TROMBOFILIA
Diversi fattori contribuiscono alla prognosi ed alla gravità della trombosi: la sede, il tipo di vaso ostruito ed il grado di ostruzione. In gravidanza la condizione ereditaria della patologia può aumentare il rischio di aborto spontaneo o di morte endouterina fetale per trombosi a carico dei vasi placentari.
La trombofilia ereditaria è una condizione multifattoriale, causata dall’interazione tra fattori genetici ed ambientali tra cui fumo, obesità, ipercolesterolemia e ipertensione. Le linee guida nazionali ed internazionali hanno identificato i principali fattori genetici associati a questa predisposizione: la variante G1691A nel gene che codifica per il fattore V di Leiden, la variante G20210A nel gene che codifica per il fattore II e le varianti C677T e A1298C nel gene MTHFR.
Il test molecolare può dare esito:
POSITIVO: riscontro in omozigosi (doppia dose) o in eterozigosi (singola dose) di mutazioni in uno o più dei geni indagati
NEGATIVO: assenza di tutte le varianti indagate
Il fattore V di Leiden
Il fattore V di Leiden è una delle principali proteine coinvolte nella cascata della coagulazione, processo che porta all’arresto del sanguinamento in caso di emorragie. Il gene del fattore V (F5) comprende 25 esoni ed è localizzato sul cromosoma 1 (1q24.2). Nel 1994 Bertina e coll. identificarono una mutazione nell’esone 10 a livello del nucleotide 1691, comportando un cambio di una G con una A e conseguente sostituzione dell’arg506 con una glutammina: la mutazione è classificata G1691A o R506Q. Tale cambio aminoacidico causa, nel processo coagulativo, un’incapacità di clivaggio del fattore V attivato (Va) da parte della Proteina C attivata (APC), una serina proteasi che, in presenza della Proteina S come cofattore, taglia il fattore Va in tre posizioni specifiche: arg306, arg506 e arg679. Variazioni nucleotidiche nei codoni relativi alle tre arginine sopramenzionate possono portare alla sostituzione dell’arginina con un altro aminoacido e rendere il fattore Va resistente al clivaggio da parte dell’ APC: si parla allora di resistenza alla Proteina C attivata (APCR).
Il fattore V di Leiden è inattivato dall’ APC molto più lentamente, a causa dell’alterazione del sito di clivaggio in arg506 (divenuto glu506), e persiste pertanto nel circolo per un tempo superiore, con conseguente maggiore produzione di trombina. Questo determina uno stato di media iper-coagulabilità.
Il fattore V Leiden è presente quasi esclusivamente nei Caucasici, con una prevalenza del 5% nella popolazione generale europea e con valori più alti (10-15%) nelle popolazioni medio-orientali. I soggetti eterozigoti per il FV di Leiden presentano un incremento del fattore di rischio trombotico, per lo più di tipo venoso (4-8 volte aumentato rispetto ai soggetti che non possiedono la variante allelica), mentre i soggetti omozigoti presentano un fattore di rischio trombotico maggiore (80 volte superiore rispetto alla norma). La maggior parte dei pazienti eterozigoti od omozigoti per tale mutazione sviluppano una trombosi venosa, complicata o meno da tromboembolismo polmonare, quasi esclusivamente in presenza di fattori di rischio ambientali quali:
assunzione di contraccettivi orali;
terapie estro-progestiniche;
gravidanza o puerperio;
eventi chirurgici o fratture;
associazione ad altre patologie protrombotiche (LES, neoplasie, deficit di ATIII, Proteina C o Proteina S);
associazione ad altre varianti genetiche predisponenti (mutazione 20210A per il FII, mutazione 677T per la MTHFR).
Il test mutazionale è indicato in tutti i pazienti che hanno manifestato eventi di tromboembolismo venoso, specie quelli più giovani (età < 50 anni) con sito inusuale di trombosi (epatico, mesenterico o cerebrale), o che presentano eventi trombotici ricorrenti. Esso è inoltre indicato in tutte le donne che hanno presentato complicanze della gravidanza quali abortività spontanea, pre-eclampsia, ritardo di crescita fetale, abruptio placentae ed in quelle che, in presenza di storia familiare positiva, devono assumere contraccettivi orali, seguire terapie estro-progestiniche oppure sono in gravidanza. Il test è indicato, inoltre, nei soggetti asintomatici che hanno un familiare di primo grado portatore della mutazione.
Il fattore II
Il fattore II, o protrombina, svolge un ruolo fondamentale nella coagulazione, in seguito alla sua attivazione si verifica la trasformazione del fibrinogeno in fibrina con formazione del coagulo. Il gene per la protrombina (Fattore II della coagulazione) è localizzato sul cromosoma 11 (locus 11p11.2). Il gene contiene 14 esoni e le sequenze introniche costituiscono circa il 90% del gene, che è lungo 21 Kb. La protrombina è il precursore della trombina, una serina proteasi, un enzima che svolge un ruolo chiave nell’emostasi e nella trombosi in quanto esibisce attività procoagulante, anticoagulante ed antifibrinolitica. Nel 1996 Paort e coll. descrissero una variante genetica comune nella regione 3’ non tradotta del gene della protrombina che è associata ad un piccolo aumento dei livelli plasmatici di protrombina, cui consegue un aumentato rischio di trombosi venosa. Trattasi di una sostituzione G> A alla posizione 20210 nel gene. Il meccanismo patogenetico della mutazione non è completamente noto, sebbene sia molto probabile che la mutazione nella regione al 3’ non tradotta alteri l’attività di regolazione della regione stessa, che è localizzata nelle vicinanze del sito di poliadenilazione e di clivaggio dell’mRNA, con una conseguente maggiore efficienza di traduzione o di maggiore stabilità dell’mRNA. Ne consegue un maggior livello sierico di protrombina, che potrebbe portare ad uno sbilanciamento nell’ambito del sistema procoagulante, anticoagulante e fibrinolitico, con aumentata produzione di trombina e quindi eccessiva crescita del coagulo di fibrina. La variante protrombinica 20210 è presente nel 2% della popolazione europea, nel 6% dei pazienti affetti da trombosi venosa e nel 18% in pazienti selezionati per trombofilia familiare. Il rischio di trombosi venosa, complicata o meno da tromboembolismo, è aumentato di 3-4 volte nei soggetti eterozigoti rispetto ai soggetti non portatori. In assenza di dati epidemiologici validi, non disponibili a causa della rara presenza di questa mutazione, non è ancora chiaro il vero valore di rischio per episodi trombotici nei soggetti in condizione di omozigosi per la variante 20210, ma esso è sicuramente molto più elevato rispetto alla condizione di eterozigosi. In donne giovani che assumono contraccettivi orali la variante 20210 mutata della protrombina predispone anche all’infarto del miocardio; tale variante è stata anche associata agli ictus cerebrali giovanili criptogenetici.
Come per tutte le altre varianti genetiche polimorfiche (SNPs) predisponenti alla trombosi, anche questo SNP esercita la sua azione prevalentemente in presenza di fattori di rischio ambientali scatenanti quali le lunghe immobilizzazioni, le fratture, gli interventi chirurgici, l’assunzione di estro-progestinici (contraccettivi orali, terapia sostitutiva in menopausa). Nel corso della gravidanza può essere causa di diverse complicanze della stessa (aborto spontaneo, ritardo di crescita fetale, pre-eclampsia). Di particolare interesse è l’associazione tra la variante genetica protrombinica e la trombosi arteriosa, specie quella collegata all’infarto del miocardio ed all’ictus cerebrale, nei soggetti fumatori di tabacco.
MTHFR
Il 5,10 metilentetraidrofolatoreduttasi (MTHFR) è l’enzima metabolico coinvolto nella conversione dell’omocisteina a metionina attraverso il pathway di rimetilazione. Esso infatti catalizza la trasformazione del 5-10-metilentetraidrofolato in 5-metiltetraidrofolato, che è il donatore di gruppi metili necessari per la rimetilazione dell’omocisteina a metionina, utilizzando la vitamina B12 come cofattore. Mutazioni rare a carico del gene MTHFR, trasmesse con modalità autosomiche recessive, portano ad un grave deficit enzimatico accompagnato da omocisteinemia ed omocistinuria, con un fenotipo clinico grave caratterizzato da ritardo psico-motorio e gravi episodi tromboembolici, anche in età neonatale. Accanto a queste gravi mutazioni sono stati anche identificati polimorfismi genetici (SNPs) in grado di determinare una meno grave riduzione dell’attività enzimatica MTHFR, con fenotipo clinico costituito da media iperomocisteinemia, specie in situazioni di carenza alimentare da acido folico. Elevati livelli di omocisteina sono oggi considerati fattore di rischio cerebrovascolare (stroke), cardiovascolare, (infarto del miocardio) e trombosi venosa, forse attraverso un meccanismo che coinvolge i gruppi sulfidrilici della parete endoteliale dei vasi.
Il gene MTHFR è localizzato sul cromosoma 1 nel locus 1p36.22. Una sostituzione a livello della posizione nucleotidica 677, e precisamente C>T, porta ad un cambio aminoacidico nel codone 222, con la sostituzione di un’alanina con una valina. Tale sostituzione aminoacidica è responsabile di un enzima risultante termolabile, con attività enzimatica ridotta del 50% e conseguente aumento dei livelli plasmatici di omocisteina, specie se l’assunzione di acido folico attraverso la dieta risulta carente.
I soggetti portatori della variante genetica MTHFR 677T, specie in condizioni di omozigosi, presentano un rischio aumentato per patologia cardiovascolare e trombosi venosa. Una condizione di omozigosi per tale variante genetica è stata osservata con maggiore frequenza anche nelle madri di figli affetti da difetti del tubo neurale (DTN) e negli stessi figli affetti, come anche nelle gestanti con aborto spontaneo ricorrente e con pre-eclampsia.
La variante genetica 677T presenta una frequenza allelica tra i caucasici dello 0.3-0.4 cui consegue una condizione di omozigosi nel 12-13% dei soggetti, e di eterozigosi nel 40-45% dei soggetti. In associazione con la mutazione FV Leiden (1691A), oppure con la 20210A della protrombina, la condizione di omozigosi 677T aumenta il rischio per tromboembolismo venoso, già elevato per la presenza di una prima variante genetica predisponente. La supplementazione con acido folico può correggere la maggior parte dei casi di iperomocisteinemia e ridurre pertanto il rischio genetico aumentato associato alla variante genetica, specie in condizione di omozigosi.
GP IIb/IIIa
Il meccanismo patogenetico della trombosi nell’infarto acuto del miocardio è legato alla rottura di una placca ateromatosa con conseguente formazione di un trombo ricco di piastrine. Infatti, l’esposizione della lamina basale dell’endotelio o di diversi componenti costituenti la placca ateromatosa, innesca la cascata coagulativa con formazione di trombina, potente attivatore dei recettori piastrinici GP IIb/IIIa che portano all`aggregazione piastrinica.
Il complesso GP IIb/IIIa rappresenta il più abbondante recettore presente sulla superficie piastrinica (circa 80.000 copie/cellula) e consiste di due catene proteiche non covalentemente associate, il cui ruolo è quello di legare il fibrinogeno ed il fattore von Willebrand. Sulla superficie delle piastrine non attivate, o “resting”, il complesso GP IIb/IIIa è presente in uno stato conformazionale inattivo e dopo l’attivazione di un agonista, quale ad esempio la trombina, il recettore subisce un cambio conformazionale passando ad uno stato attivato, in grado di legare con alta avidità il fibrinogeno circolante. Tale cascata di eventi, che procede dall’esterno per portare poi, attraverso un meccanismo intracellulare, all’attivazione dei recettori di membrana, prende il nome di “inside-out signaling”. Una volta legato il fibrinogeno, il recettore innesca una serie di meccanismi intracellulari che culminano con il cambio di forma delle piastrine, l’adesione piastrinica e la retrazione del coagulo (outside-in signaling).
Il gene della catena proteica GPIIIa (ITGB3 o GP3A) è localizzato sul cromosoma 17 (q21.32) ed a livello dell’esone 2 presenta uno SNP alla posizione 1565 con cambio aminoacidico in posizione 59, dove una leucina viene sostituita da una prolina. Tale polimorfismo genetico è stato denominato HPA-1 a/b o PlA1/PIA2. A livello di questo gene può essere presente o l’allele a (PlA1) o l’allele b (PlA2). I soggetti omozigoti aa (PlA1/PlA1) sono circa il 74%, mentre gli eterozigoti ab (PlA1/PlA2) rappresentano circa il 24% della popolazione. I soggetti omozigoti bb (PlA2/PlA2) sono molto rari e sono pari a circa il 2%.
Le piastrine dei soggetti che portano l’allele b (PlA2) in eterozigosi, e ancor più quelle dei soggetti che lo portano in omozigosi, presentano una maggiore capacità di legame con il fibrinogeno ed una maggiore aggregabilità.
L’ allele b (PlA2) è stato quindi associato ad un maggior rischio per infarto del miocardio, specie in età giovanile, e soprattutto nei fumatori. Esso comporterebbe anche un aumentato rischio di restenosi coronarica dopo procedura di rivascolarizzazione mediante impianto di stent. Infine, in questi soggetti la terapia preventiva della restenosi e delle complicanze dovrebbe essere modulata in funzione del genotipo, essendo l’allele b (PlA2) maggiormente responsivo ad un trattamento combinato (aspirina + ticlopidina) rispetto ad uno costituito dalla sola aspirina (resistenza all’aspirina).
Il polimorfismo piastrinico HPA-1 è anche coinvolto nel meccanismo patogenetico della porpora trombocitopenica autoimmune neonatale. In caso di incompatibilità materno-fetale in funzione del sistema allotipico HPA-1, già nel corso della prima gravidanza si può osservare un passaggio di anticorpi allo-immuni dalla madre al feto con conseguente trombocitopenia neonatale.
PAI-1
Il sistema fibrinolitico, meccanismo opposto a quello della coagulazione ed in equilibrio con esso, in condizioni di normale flusso sanguigno, è basato sul plasminogeno, che è convertito in plasmina dall’Attivatore del Plasminogeno, sia del tipo tissutale (t-PA) che del tipo urochinasi (u-PA). L’inibitore-1 dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1) è il maggiore inibitore del sistema fibrinolitico ed è prodotto da cellule epatiche, piastrine, cellule endoteliali e cellule muscolari lisce delle pareti vasali.
PAI-1 è un membro della famiglia SERPIN e si lega all’attivatore del plasminogeno tissutale (tPA) inibendone l’attivazione con conseguente diminuita fibrinolisi.
PAI-1 è presente nella circolazione sistemica in eccesso molare rispetto al tPA e questo previene lo sviluppo di una fibrinolisi sistemica, permettendo la formazione locale del coagulo in assenza di sanguinamenti a livello sistemico.
PAI1 sembra anche svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione della fibrina e nel rimodellamento vascolare. Elevati livelli di questo inibitore sono stati associati ad un maggior rischio trombotico sia di tipo arterioso (infarto miocardico e malattia coronarica) che venoso (tromboembolismo), specie nei soggetti fumatori ed ipertesi. Il suo livello plasmatico è infatti aumentato dopo intervento chirurgico e comporta una riduzione dell’attività fibrinolitica che potrebbe giustificare l’osservata ipercoagulabilità post-operatoria. Inoltre il bilanciamento tra gli attivatori del plasminogeno ed il loro inibitore svolgerebbe un ruolo di primo piano nella formazione del trombo arterioso dopo la rottura di una placca ateromatosa.
Elevati livelli di PAI1 sono anche osservati in corso di sindrome metabolica, in associazione con l’ipertensione, l’obesità, l’insulino-resistenza, gli elevati livelli di trigliceridi e le basse concentrazioni di lipoproteine ad alta densità (HDL).
Il gene PAI1 è localizzato sul cromosoma 7 al locus q22.1 e presenta un polimorfismo (SNP) di inserzione/delezione di una singola G (4G/5G) alla posizione 675 dal sito di inizio del gene, all’interno di una regione regolatoria al 5` (promotore). Il 26% della popolazione presenta un genotipo 4G/4G, il 50% è eterozigote (4G/5G) ed il 24% ha un genotipo 5G/5G. L’ allele 4G è stato associato ad aumentato rischio trombotico in quanto correlato ad un aumento dell’attività trascrizionale del gene e quindi ad aumentati livelli plasmatici di PAI1, che nella condizione di omozigosi 4G/4G sono il 25% più alti rispetto ai soggetti con genotipo 5G/5G. Si ritiene infatti che il promotore con la mutazione 4G sia in grado di legare solo un enhancer mentre l’allele 5G sia in grado di legare sia un “enhancer” che un “silencer”.
Successivamente è stato dimostrato che il promotore di PAI1 esibisce una risposta ai trigliceridi genotipo-specifica, con più alti livelli di PAI1 nei soggetti con il genotipo 4G/4G in presenza di elevati livelli di trigliceridi. Infine, donne in gravidanza con genotipo 4G/4G hanno una maggiore incidenza di complicanze della gravidanza e del parto rispetto ai soggetti 5G/5G.
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