Letteratura scientifica Cardiologia
Cardiologia
La Genetica in Cardiologia
Patologie Cardiache Monogeniche
Morte Cardiaca Improvvisa Giovanile
L’analisi genetica
Patologie Cardiache Poligeniche
La Farmacogenetica in Cardiologia
Conclusioni
La Genetica in Cardiologia
Attualmente, grazie alla caratterizzazione molecolare, abbiamo a disposizione strumenti per una precoce e più accurata predizione delle malattie cardiovascolari, che dovrebbero concorrere a prevenire l’estrinsecarsi delle patologie piuttosto che la loro cura. Tali metodiche, inoltre, consentono al clinico di predire la sensibilità o la resistenza individuale ad uno specifico trattamento farmacologico e quindi di prescrivere per ogni singolo individuo il farmaco e la posologia più appropriati.
Questa strategia rientra nel complesso panorama della “medicina personalizzata”.
Poiché la pratica clinica ha da sempre dimostrato l’importanza della storia familiare nello sviluppo di malattie cardiovascolari, con le attuali tecnologie disponibili si ha finalmente la possibilità di effettuare screening genetici su parenti di primo grado di soggetti che sviluppano malattie coronariche prima dei 55 anni di età per i maschi e dei 65 anni per le femmine.
Per le patologie monogeniche, ovvero quelle patologie in cui è sufficiente l’alterazione di un singolo gene per determinare l’insorgenza dei segni e dei sintomi della malattia, la genetica permette di fare una diagnosi certa di malattia, sulla base del genotipo del paziente (Tab1); diversamente per le forme poligeniche, la genetica risulta utile nel definire il grado di predisposizione del singolo individuo, anche se l’apporto di ogni singolo polimorfismo al rischio complessivo di sviluppare la malattia resta basso Tab2-3. Probabilmente un’analisi combinata di più polimorfismi può apportare un contributo maggiore alla stima del rischio complessivo, anche se l’applicazione più promettente dal punto di vista biomedico dei test genetici in relazione alle forme poligeniche di malattie cardiovascolari sembra al momento legata alla farmacogenetica, ossia alla possibilità di poter prevedere l’effetto del farmaco sul paziente, soprattutto nelle fasi iniziali della terapia Tab4.
PATOLOGIE CARDIACHE MONOGENICHE
Le malattie aritmogene a trasmissione genetica costituiscono un gruppo di cardiopatie il cui comune denominatore è il carattere eredo-familiare e l’instabilità elettrica ventricolare che può portare a morte improvvisa specialmente in età giovanile.
Si distinguono malattie ereditarie aritmogene “strutturali” e “primariamente elettriche”. Il primo gruppo include: cardiomiopatia ipertrofica, cardiomiopatia dilatativa familiare, cardiopatia aritmogena del ventricolo destro, cardiomiopatie restrittive e non compattazione isolata del ventricolo sinistro. Il secondo comprende una serie di malattie primariamente elettriche, dette anche “canalopatie”, risultanti da una disfunzione geneticamente determinata dei canali ionici della membrana cellulare o di proteine coinvolte nell’omeostasi del calcio intracellulare, e responsabili di arresto cardiaco in assenza di alterazioni cardiache strutturali clinicamente dimostrabili Tab1.
Malattie aritmogene strutturali
La cardiomiopatia ipertrofica familiare è una malattia primitiva del miocardio, caratterizzata morfologicamente da ipertrofia del ventricolo sinistro, che può rimanere asintomatica per tutta la vita o manifestarsi in età infantile, con sintomatologia variabile fino a sincopi che possono limitare lo svolgimento delle regolari attività quotidiane. La familiarità viene riconosciuta nel 70% dei casi di cardiomiopatia ipertrofica familiare e generalmente presenta un’ereditarietà di tipo autosomico dominante, cioè il cardiologo deve sapere che la probabilità di trasmettere alla prole il gene mutato è del 50%. Nei casi familiari fino ad oggi sono state identificate più di 300 mutazioni su 12 geni diversi che codificano per le proteine del sarcomero.
La cardiomiopatia dilatativa è una malattia del muscolo cardiaco caratterizzata da dilatazione ed alterata contrattilità del ventricolo sinistro o entrambi i ventricoli. La cardiomiopatia dilatativa è una malattia clinicamente eterogenea, che comprende forme idiopatiche, geneticamente determinate (in maniera sporadica o con trasmissione familiare) e forme secondarie ad altre patologie. Le forme familiari, in genere, derivano da mutazioni di geni che codificano per proteine del citoscheletro e del sarcomero. A livello genetico, infatti, la cardiomiopatia dilatativa è una malattia complessa, poiché rappresenta uno spettro di disordini, e numerosi sono i geni e le mutazioni coinvolte nella patogenesi. Inoltre a rendere ancora più complesso il quadro genetico sono le diverse modalità di trasmissione ereditaria, anche se la trasmissione autosomica dominante conta l’85% degli eventi. Pertanto non esistono ancora test genetici di uso routinario, ma è la clinica a dover guidare la ricerca di geni specifici. Tuttavia lo screening genetico dei familiari è fondamentale per l’identificazione della malattia in fase asintomatica e per la scelta delle strategie terapeutiche in questa fase precoce.
La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (o sindrome di Null) è un tipo di cardiomiopatia non ischemica che coinvolge principalmente il ventricolo destro, generalmente trasmessa come carattere autosomico dominante ad espressività variabile. Costituisce una causa riconosciuta di morte improvvisa nei giovani, soprattutto atleti, e l’età media della diagnosi è tra i 25 e i 37 anni. Sono state identificate numerose mutazioni a carico di geni differenti, ma i geni che vengono più frequentemente associati alla malattia (circa il 50% dei casi) sono quelli codificanti per le proteine coinvolte nella formazione dei desmosomi, strutture di connessione intracellulare.
Le cardiomiopatie restrittive sono le cardiomiopatie più rare, caratterizzate da riempimento ventricolare di tipo restrittivo, ridotto volume diastolico dei ventricoli in presenza di funzione sistolica conservata. Questa condizione risulta da un aumento della rigidità dell’endocardio, del subendocardio e del miocardio con aumento delle pressioni diastoliche endoventricolari. Le cardiomiopatie restrittive in genere comprendono forme primitive, secondarie infiltrative, secondarie da accumulo e forme idiopatiche. Solo in una minoranza delle forme idiopatiche in cui si riconosce una familiarità risulta pertanto utile uno screening genetico per le mutazioni a carico dei geni per la desmina e per la troponina I.
La non compattazione isolata del ventricolo sinistroè una rara cardiomiopatia che in alcuni casi può presentare prognosi severa. Generalmente si riscontra principalmente in età pediatrica, poiché si ritiene sia dovuta ad un arresto della compattazione intrauterina delle fibre miocardiche in assenza di qualsiasi altra patologia strutturale cardiaca. La maggior parte delle forme familiari di non compattazione isolata del ventricolo sinistro segue un pattern autosomico dominante ma esistono anche forme recessive, X-linked od a trasmissione mitocondriale.
Malattie aritmogene primariamente elettriche o canalopatie
È ormai noto che mutazioni geniche a carico dei canali ionici cardiaci possono alterare l’equilibrio delle correnti del potenziale d’azione, innescando tachiaritmie ventricolari letali, in particolare:
la sindrome del QT lungo è una malattia genetica trasmessa come carattere autosomico dominante, dovuta a più di 500 mutazioni su almeno 10 geni, tutti codificanti per canali ionici responsabili del controllo dell’attività elettrica delle cellule cardiache. Le sindromi del QT lungo comprendono una forma comune autosomica dominante (sindrome Romano-Ward) e una autosomica recessiva associata a sordità (sindrome di Jervell e Lange-Nielsen);
la sindrome del QT breve è una malattia caratterizzata prevalentemente da un intervallo QT breve nell’ECG. Gli individui affetti lamentano frequentemente palpitazioni e possono avere sincopi ed andare incontro a morte improvvisa. A causa dell’ereditarietà a carattere autosomico dominante, la maggior parte dei soggetti avrà una storia in famiglia di morte improvvisa in età giovanile (anche nell’infanzia), palpitazioni, o fibrillazione atriale;
la sindrome di Brugada, come le sindromi del QT lungo, è annoverata tra le malattie elettriche primitive del cuore. Tale sindrome si manifesta con sincopi e morte cardiaca improvvisa in soggetti di giovane età, in assenza di anomalie strutturali del cuore. La distribuzione degli individui affetti all’interno delle famiglie evidenzia una modalità di trasmissione di tipo autosomico dominante. Nel 20% dei soggetti affetti da sindrome di Brugada sono state riscontrate mutazioni nel gene SCN5A e polimorfismi a livello del suo promotore. Questo gene codifica per la proteina canale del sodio che gioca il ruolo più importante nel determinare la fase 0 del potenziale cardiaco (depolarizzazione), controllando uno step cruciale nell’attivazione elettrica del cuore;
la sindrome di Wolff-Parkinson-White è una malattia da anomala conduzione cardiaca; caratterizzata dalla presenza di uno o più fasci atrioventricolari accessori, che può dare origine ad episodi di tachicardia sporadica. Questa sindrome colpisce soprattutto soggetti maschi (70% dei casi) in giovane età ed ha un’incidenza stimata intorno a 1/450;
la fibrillazione atriale familiare è una malattia ereditaria autosomica dominante, geneticamente eterogenea, associata a mutazioni in numerosi geni;
la tachicardia ventricolare polimorfa catecolaminergica è sempre stata considerata una patologia estremamente rara, anche se in realtà, molto probabilmente, è ancora sottodiagnosticata, proprio per le problematiche legate alla sua individuazione. È importante, infatti, sottolineare come, i pazienti affetti da questa patologia presentino un ECG a riposo normale, senza cioè alcuna alterazione che possa suggerire la presenza della malattia. Solo durante l’esercizio fisico o in presenza di uno stress emotivo acuto la malattia si può manifestare con aritmie cardiache anche gravi che possono provocare sincope od arresto cardiaco.
MORTE CARDIACA IMPROVVISA GIOVANILE
La morte cardiaca improvvisa giovanile può essere causata da cardiopatie ereditarie. L’esame autoptico sistematico del cuore e la ricostruzione della storia clinica del probando sono il punto di partenza per selezionare quei casi in cui avviare uno screening cardiologico familiare, secondo precisi algoritmi diagnostici, al fine di prevenire, nei parenti vivi, eventi fatali correlati a cardiomiopatie o ad aritmie su base genetica.
Ad oggi, il numero di famiglie nelle quali non si raggiunge una diagnosi, e i cui membri restano quindi potenzialmente a rischio, è ancora molto elevato. Le cardiopatie ereditarie sono infatti patologie rare e spesso a bassa penetranza, per cui, in assenza di sintomi e di anomalie evidenti agli esami strumentali, lo screening cardiologico può risultare negativo. Ancora limitato appare il numero delle famiglie che decidono di sottoporsi a un attento screening cardiologico soprattutto per limiti organizzativi. È necessaria quindi una maggiore informazione sulla gestione della morte improvvisa cardiaca giovanile nell’ambito delle strutture sanitarie, al fine di procurare un più efficace supporto da parte dei medici e dei cardiologi curanti alle famiglie colpite da questi eventi, incoraggiare maggiormente la valutazione cardiologica dei parenti presso i Centri di riferimento per la morte improvvisa e di promuovere assetti organizzativi adeguati.
La morte cardiaca improvvisa è la principale causa di morte improvvisa in bambini, adolescenti e giovani adulti. Si verifica spesso in soggetti apparentemente sani e può rappresentare la prima manifestazione di una patologia cardiaca sottostante. Questa problematica è divenuta di particolare interesse da quando è stato dimostrato che i defibrillatori impiantabili sono in grado di prevenire la morte improvvisa in popolazioni selezionate ad alto rischio. L’indagine autoptica documenta, in un’elevata percentuale dei casi (40% circa), la presenza di una malattia cardiaca ereditaria con o senza evidente substrato morfologico (morte improvvisa non spiegata). In questo contesto, lo screening cardiologico dei familiari dei soggetti deceduti improvvisamente, oltre a poter consentire l’identificazione della malattia nei casi senza substrato morfologico, è utile per predisporre strategie di prevenzione della morte improvvisa in altri membri della stessa famiglia.
L’ANALISI GENETICA
La base genetica delle cardiopatie strutturali primitive e delle sindromi aritmiche ereditarie è stata ampiamente dimostrata e precisata nel corso del passato decennio e gli studi in questo campo sono sempre in continua evoluzione. Tuttora non appare sempre agevole trasferire le tecniche dell’analisi genetica dai laboratori di ricerca all’area clinica anche se per alcune patologie sono stati fatti numerosi passi in avanti.
Un documento pubblicato da parte dell’Heart Rhythm UK Group fornisce le raccomandazioni concernenti le indicazioni cliniche per avviare un’indagine genetica. Tra i principali fattori che influenzano il ruolo clinico dell’analisi genetica vengono segnalati la sensibilità variabile, ma spesso insufficiente (ampia eterogeneità genetica della malattia e molti geni non ancora identificati), la specificità di nuove mutazioni (possibili polimorfismi non causativi), e le problematiche di costo/efficacia ancora non adeguatamente analizzate e comunque differenti da malattia a malattia (diverso numero e dimensioni dei geni da analizzare).
L’analisi genetica nei familiari
L’analisi genetica deve essere sempre accompagnata da un adeguato counseling, svolto da un team medico che comprenda un genetista o un cardiologo esperto in questa materia. La finalità del counseling è quella di spiegare il significato di una malattia genetica, le modalità di trasmissione, il trattamento e le strategie di prevenzione da attuare sulla base delle evidenze disponibili, al fine di promuovere da parte dell’interessato scelte informate e consapevoli e adattamento psicologico alla propria condizione di rischio. L’analisi genetica, nel contesto in esame, è rivolta esclusivamente alle malattie e alle sindromi ereditarie monogeniche, prime fra tutte la LQTS, BS, HCM e ARVC.
Poiché non tutti i geni responsabili sono stati identificati, l’assenza di una mutazione in uno dei geni noti responsabili di una determinata patologia non esclude la diagnosi. Una positività dell’analisi genetica, invece, facilita la diagnosi nei familiari soprattutto nelle malattie a penetranza incompleta o in quelle con fenotipo morfologico normale (disturbi elettrici primitivi): l’individuazione di questi soggetti, permette di attivare strategie di controllo nel tempo e di prevenzione primaria della morte improvvisa. La sensibilità dell’analisi genetica e l’indicazione alla sua applicazione variano a seconda delle diverse patologie.
Nella LQTS, quando la diagnosi clinica è definita, la sensibilità dell’analisi genetica è del 70% circa e la sua positività ha una considerevole rilevanza per la gestione clinica e terapeutica e per la prognosi. In questo caso, l’estensione dell’analisi genetica ai familiari rappresenta un metodo di screening più efficace (anche dal punto di vista del rapporto costo/efficacia) rispetto all’approccio clinico. Quando la diagnosi clinica di LQTS è incerta o borderline, la sensibilità dell’analisi genetica si riduce al 45% circa; la diagnosi va esclusa dopo accurate e ripetute valutazioni elettrocardiografiche.
Nella CPVT, causata in circa la metà dei casi da mutazioni del gene RyR2, la sensibilità dell’analisi genetica nei pazienti con diagnosi clinica certa è del 50% circa. Tuttavia ottenere un test genetico positivo è di enorme valore in questa patologia, difficile diagnosticare nei familiari affetti asintomatici (ECG a riposo ed ecocardiogramma normali) e nella quale la maggior parte dei pazienti è asintomatica prima dell’evento letale (che si verifica generalmente al di sotto dei 20 anni).
La sensibilità dell’analisi genetica nella BS è del 30-40%. Un test positivo permette naturalmente un rapido ed accurato screening dei familiari. Malgrado ciò, a causa della bassa sensibilità e della limitata utilità nella gestione clinica e terapeutica del singolo paziente, l’analisi genetica nella BS risulta meno importante rispetto ad altre malattie e soprattutto rispetto alle indicazioni che possono fornire gli esami strumentali (ECG, test provocativi).
Nella HCM, l’analisi genetica risulta positiva nel 60% dei casied è dunque raccomandata come parte integrante dello screening familiare quando un gene causale viene identificato in un componente affetto.
Al contrario, la base genetica della DCM è difficile da identificare. Fanno eccezione i casi con DCM e blocco atrioventricolare nel probando o quando esista una storia familiare con membri affetti da DCM e blocchi atrioventricolari, in cui un difetto sul gene della lamina A/C è identificabile fino al 30% dei casi. L’analisi dell’albero genealogico e le modalità di trasmissione (autosomica dominante, recessiva, X-linked, matrilineare) possono indirizzare la ricerca. Tuttavia, il test genetico non è raccomandato nella DCM isolata.
Infine, lo screening di tutti i possibili geni candidati nella ARVC consente una diagnosi nel 40% dei casi. La genotipizzazione degli individui affetti, allo scopo di avviare uno screening “a cascata” nei familiari, è particolarmente importante in questa patologia, in considerazione della sua penetranza bassa e correlata all’età, della variabilità dell’espressione fenotipica, spesso caratterizzata da anomalie minime ed aspecifiche nelle fasi iniziali della malattia.
PATOLOGIE CARDIACHE POLIGENICHE
Genetica dei fattori di rischio cardiovascolare
Evidenze accumulate negli ultimi decenni dimostrano che le malattie cardiovascolari aterosclerotiche (malattie coronariche e malattie arteriose periferiche) hanno una distribuzione familiare, a conferma di una forte componente genetica nella loro patogenesi.
Lo sviluppo dell’aterosclerosi è un processo complesso che origina dalla sinergia di più fattori di rischio. Il processo aterosclerotico coinvolge numerose vie metaboliche, fra le quali quelle del metabolismo lipidico, della coagulazione e dell’infiammazione, pertanto alterazioni di geni implicati in queste vie costituiscono spesso fattori di rischio per lo sviluppo di patologie cardiovascolari. La diagnosi molecolare potrebbe permettere, attraverso l’analisi delle varianti geniche associate ad un aumentato rischio di insorgenza delle patologie cardiovascolari, di attribuire un profilo di rischio individuale. In questo ambito l’analisi di un pattern di geni per quelli che sono i più comuni fattori di rischio tipicamente poligenici (ipertensione, diabete mellito di tipo 2, ecc.) può apportare un interessante contributo non solo e non tanto diagnostico, ma soprattutto prognostico Tab2.
Cardiopatia ischemica
La distribuzione familiare della cardiopatia ischemica conferma il ruolo della genetica nella sua patogenesi. Gli studi di metanalisi condotti su migliaia di pazienti affetti da cardiopatie ischemiche hanno permesso l’identificazione di alcun e varianti geniche che si associano ad un aumentato rischio di sviluppare la patologia. Tali varianti riguardano i seguenti geni: PAI-1, GJA4, MTHFR, CEPT, NOS3, NO, APOB2, APOE, E2, E3, E4, ACE, FGB, F2, F5, LPL74-77, ABCB1, APOAI, CYP7A1, HMGCR.
Genetica delle patologie cardiovascolari poligeniche
Recentemente lo sviluppo di tecnologie Next Generation Sequencing (NGS) e la mappatura sul genoma umano di centinaia di migliaia di polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) hanno permesso di condurre l’analisi simultanea nel DNA di uno stesso soggetto di migliaia di polimorfismi a singolo nucleotide dispersi su tutto il genoma.
Gli studi di metanalisi in cui sono stati inclusi migliaia di pazienti affetti da malattie cardiovascolari nell’intento di identificare le varianti polimorfiche predisponenti a tali patologie, hanno permesso l’identificazione di alcune varianti geniche che, seppur con un modesto contributo se considerate singolarmente, in sinergia con altre varianti e con fattori ambientali predisponenti, sono coinvolte nella patogenesi di queste malattie.
La caratterizzazione di tali varianti geniche potrebbe permettere la predizione del rischio di sviluppare malattie aterosclerotiche cardiovascolari. Le varianti genetiche associate al rischio di insorgenza delle principali patologie cardiovascolari sono in gran parte incluse fra quelle già elencate in associazione ai fattori di rischio Tab3
LA FARMACOGENETICA IN CARDIOLOGIA
La farmacogenetica è lo studio della variabilità di risposta a un farmaco dovuta a fattori genetici ereditari. In seguito al completamento del progetto Genoma Umano e grazie allo sviluppo di tecnologie NGS per l’analisi del DNA, la farmacogenetica si occupa della correlazione delle informazioni genetiche con la risposta al farmaco al fine di sviluppare terapie sempre più specifiche e personalizzate.
La variabilità individuale nella risposta ai farmaci è dovuta a meccanismi fisiologici (età, sesso, stato nutrizionale), patologici (funzionalità renale ed epatica, e presenza di comorbilità), ambientali (dieta, abitudine al fumo e all’alcool, concomitante assunzione di più farmaci) e soprattutto al profilo genetico individuale che determina infatti sia le caratteristiche dei target terapeutici sia delle proteine coinvolte nel processo dell’assorbimento dei farmaci: soggetti con un particolare genotipo possono non essere in grado di metabolizzare particolari farmaci e quindi presentare un maggior rischio di reazioni avverse oppure di interazioni con altri farmaci. Altri geni sono in grado di determinare una rapida metabolizzazione di alcuni farmaci, con conseguente loro parziale inefficacia Tab4.
CONCLUSIONI
Le malattie cardiovascolari ed i relativi fattori di rischio sono stati suddivisi in forme monogeniche e poligeniche. Le prime sono di più raro riscontro nella pratica clinica, mentre le forme poligeniche e la maggior parte dei fattori di rischio rivestono un notevole interesse clinico data l’elevata frequenza nella popolazione. Il valore aggiunto dei test genetici consiste nel fornire un profilo di rischio individuale valutato in maniera oggettiva sul singolo paziente e non dedotto esclusivamente da dati epidemiologici. La prognosi di soggetti con lo stesso profilo di rischio, valutato con gli attuali dati clinico-anamnestici, risulta spesso molto diversa. Vi sono ormai numerose evidenze di come la diagnostica molecolare e la farmacogenomica rivestano un ruolo sempre più importante nella corretta gestione clinica di numerosi pazienti affetti da cardiopatie o portatori di fattori di rischio cardiovascolare: poter quindi prevedere con buona approssimazione il più probabile decorso clinico della malattia cardiovascolare in ciascun paziente consentirebbe un indubbio miglior approccio terapeutico (medicina personalizzata) ed una riduzione in termini di spesa sanitaria nazionale (una cura più efficace).
La conoscenza di tali metodiche pertanto non deve più essere esclusivamente ad appannaggio del ristretto gruppo dei ricercatori, ma deve permeare anche la cultura del cardiologo clinico. Probabilmente nei prossimi anni assisteremo ad un incremento esponenziale di informazioni o test riconducibili all’ambito della diagnostica molecolare ed è probabile che molto presto assurgerà a dignità di vera e propria “branca” della Cardiologia come l’emodinamica o l’elettrofisiologia. La conoscenza pertanto delle attuali opportunità diagnostico-terapeutiche e soprattutto la “visione” di quello che già sta dietro l’angolo diventerà indispensabile nel bagaglio culturale del cardiologo del terzo millennio.
Le linee guida 2015 della Società Europea di Cardiologia (ESC) sul trattamento delle aritmie ventricolari e la prevenzione della morte improvvisa forniscono le raccomandazioni cliniche più recenti basate sull’evoluzione delle conoscenze. Il documento incorpora circa 10 anni di progresso scientifico e tecnologico con aggiornamenti in merito alla diagnosi delle malattie a trasmissione genetica, alla terapia farmacologica delle aritmie ventricolari, all’uso dei nuovi dispositivi impiantabili e indossabili. Il focus del documento è tuttavia la prevenzione.